«Noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire». Mi piace immaginare che, una volta finito di battere queste parole contenute nella sua ultima fatica letteraria (Due vite, 2020), Emanuele Trevi abbia visto accendersi e spegnersi più volte la lampada della sua scrivania. Tic, flop! Tic, flop! Tic, flop! Riesco a scorgere il suo studio romano, tornato silenzioso come se nulla fosse accaduto. Dapprima lo scrittore avrà fatto un sussulto per lo spavento, poi si sarà tranquillizzato, e le sue labbra avranno accennato un sorriso. “Sono solo segnali…”, avrà pensato portando le spalle in alto fino a sfiorare le orecchie, in segno di accettazione dell’imprevisto quanto inspiegabile fenomeno. “In fondo, la vita è disseminata di segnali. Sta a noi saperli cogliere e interpretare”, avrà detto tra sé e sé.
In quell’istante gli sarà probabilmente tornato alla memoria un freddo e tardo pomeriggio invernale del 2002. In piedi, il viso accanto alla finestra della sala da pranzo, stava parlando al telefono con un caro amico dai tempi dell’università, un legame fraterno durato quasi vent’anni e scioltosi tempo addietro. Ora che le parole e le confessioni reciproche si erano nuovamente intrecciate, di colpo era svanita la distanza scavatasi gli ultimi anni nelle loro vite. Improvvisamente però l’attenzione di Trevi era stata catturata da un uccellino svolazzante. Ebbe bisogno di qualche secondo per metterlo a fuoco e rimase a fissarlo. Stava sospeso a mezz’aria, quasi fosse fermo. Si sarebbe detto un drone se la piccola testolina non avesse fatto capire che dentro c’era una vita animale. D’un tratto il pennuto dette due colpi d’ala e cadde a peso morto, come colpito da un infarto o dalla rosa di pallini di un cacciatore. “Che sia un triste presagio?”, si domandò. Il volto triste, i suoi occhi si erano immalinconiti. Pensò di interrompere la conversazione con l’amico, senza farne di niente. “Se è un presagio, non sarà per forza infausto!”, pensò. Con una repentina intuizione interpretò diversamente la scena: l’uccellino poteva ben essere un capro espiatorio che aveva caricato su di sé tutto il male patito. “Ora, caro amico, saremo liberi di goderci la vita che ci resta!”, pensò continuando la conversazione telefonica.
Il brutto presentimento mostrò, purtroppo, di avere un fondo di verità. Anni dopo l’amico, mentre andava a cena in motorino da una conoscente, finì contro un’automobile posteggiata in seconda fila. Uno schianto violentissimo. A quarantasei anni la sua vita si arrestò di colpo per un assurdo incidente. E, assieme a una vita dissolta, si interruppe la ritrovata pacificazione tra i due amici.
Chiara Gamberale, profondamente scossa dall’accaduto, scrisse in memoria dell’amico comune un commovente articolo che iniziava così:
«3398002756. A cancellare il numero di telefono di Rocco dalla rubrica del mio cellulare non ce l’ho fatta. Se ne sta ancora lì, dov’è sempre stato, fra il numero di Roberto, un mio amore estivo di tanti anni fa, e di un altro Rocco, padrone di un ristorante italiano di New York.
Non so che cosa mi aspetti, da quel numero. Per mesi ho aspettato che lampeggiasse sul display del mio cellulare, come faceva un giorno sì e uno no verso le sei, o che accompagnasse la bustina di un messaggio, come faceva circa dieci volte al giorno, nel ping pong di comunicazione implacabile a cui Rocco e io ci siamo messi a giocare subito, dalla sera stessa in cui Emanuele (Trevi n.d.r), a una cena, ci ha presentati… ».
Probabilmente a Trevi, ricordando tutto questo, sarà scesa una lacrima sul volto; una goccia salata che, dopo aver indugiato in prossimità delle labbra, avrà concluso la sua corsa sopra la tastiera del pc, facendo scivolare i polpastrelli delle dita che si apprestavano a riprendere l’ultima frase lasciata a metà:
«La prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene». Perché lui, a Rocco, eccome se gli aveva voluto bene! «Tra le tante fortune della mia vita, una delle più grandi e inestimabili è l’aver potuto recuperare e godere l’amicizia di Rocco…», scrive. Era felice di averlo ritrovato, anche se per poco tempo. Continuò a digitare le lettere sulla tastiera:
«E quando anche l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno».
Sì, proprio così. Quando una persona muore e coloro che gli hanno voluto bene (i familiari, i conviventi, gli amici più cari, i colleghi) continuano a pensarlo, quando rievocano i bei momenti e le situazioni difficili vissute assieme, la persona scomparsa rimane ancora nelle loro teste. Dall’altro lato c’è però una Grande Assenza. Un doloroso vuoto. E i pungoli della mancanza se ne infischiano del dolore, anzi premono ancora di più nel vivo dei ricordi. Una fotografia trovata per caso, un regalo dimenticato rinvenuto in un cassetto o la lettura di qualche frase scritta su un bigliettino, inondano di nostalgia i rimpianti di chi resta.
Cosa rimarrà della persona amata una volta che la sua salma sarà stata esumata, la lapide rimossa e gli ultimi resti saranno stati deposti nell’ossario cittadino delimitato dalla scritta Hic Ossa Arida Resurrectionem Expectant? Resterà, “in attesa della resurrezione”, uno sfarfallio di ricordi incerti e fuggitivi, e i sentimenti che segnano indelebilmente chi gli ha voluto bene. Giorno dopo giorno, poiché il dolore che essi provano nasce da quello che non c’è più e dalla volontà di voler riportare in vita ciò che è evaporato, costoro iniziano ad accettare la finitudine dell’esistenza. Sennonché, col passare degli anni, muoiono anche coloro che hanno sofferto per quella morte e hanno ricordato con malinconia quella persona. E quando scompariranno anche loro, cosa resterà della prima persona? Nulla. Niente di niente. Il buio della dimenticanza. Quella persona muore ancora, ma questa volta per sempre.
Viene, però, in soccorso la letteratura e la sua capacità di illuminare ciò che non si vede. La scrittura, rendendo vivide le cose, ci consente di inscenare una seduta spiritica, di sentire concretamente la presenza delle persone che nominiamo, di riportale in vita accanto a noi:
«Ne deduco – scrive Trevi –che la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne, accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta».
La letteratura si mostra per quello che è: non una grande bugia, ma la necessaria finzione che dice la verità.
A queste sue parole, la lampada dello studio si sarà accesa e spenta di nuovo. Come a fare l’occhiolino, a dire che era perfettamente d’accordo con lo scrittore. D’altronde «è sempre l’impossibile che genera il possibile, questo è il marchio indelebile, il difetto di fabbrica della nostra esistenza, e nessuno può evitare di farci i conti, di scontare nel suo limitato orizzonte la pena decretata dalla legge universale».