Rivista La città dei lettori

L’omino d’oro

By 16 Giugno 2021 No Comments

L’omino d’oro

Luca Giommoni

«Prima che il consumismo soffiasse sulle facciate dei palazzi storici, che il risveglio economico decidesse di aver bisogno di altri comignoli fumanti, che i grandi piani urbanistici combattessero le code ai semafori, a uno degli incroci della città, ad Arezzo, negli anni sessanta, si poteva incontrare l’omino d’oro».
Era più o meno questa la premessa che la professoressa di lettere e storia della mia scuola faceva a tutti gli alunni delle classi quinte per parlare dell’insensatezza delle guerre. In genere raccontava la vicenda verso la fine del programma didattico, al termine del secondo conflitto mondiale, quando il curriculum cognitivo degli alunni avrebbe dovuto essere in grado di sviluppare un pensiero critico.

 

La storia dell’omino d’oro è la storia di un uomo senza nome ma vestito tutto di color oro, compresi viso, mani, scarpe e perfino la bicicletta con cui ogni giorno vagava per i vari incroci cittadini. A volte si vestiva tutto di verde, ma i più lo ricordano sempre colorato d’oro. Come tutte le storie anche la sua cambia in base alla bocca che la racconta: c’è chi dice che si vestisse così per invogliare i clienti a visitare la sua presunta bottega da calzolaio in periferia, altri dicono che fosse pagato dalle aziende orafe come mascotte per testimoniare il vicino boom dell’oro, i più che fosse semplicemente pazzo.
Chiunque l’abbia conosciuto è però concorde che non parlava mai e non chiedeva mai niente a nessuno, se ne stava semplicemente a guardarsi intorno, in un continuo scrutare, come se aspettasse qualcosa che non arrivava.

 

La versione più gettonata della storia, quella che raccontava anche la professoressa, afferma che l’omino d’oro aspettava il ritorno del figlio disperso nel fronte russo durante la seconda guerra mondiale, e per farsi notare sostava agli incroci delle strade, vicino ai semafori, nella speranza che il figlio, se fosse passato da lì, l’avrebbe riconosciuto nonostante gli anni passati, grazie al suo abbigliamento stravagante.
L’omino d’oro si poteva incontrare anche alla stazione dei treni, fermo a un binario, in attesa di un qualsiasi treno che gli riportasse suo figlio; un figlio che probabilmente, molti anni prima, proprio su quel binario aveva salutato per l’ultima volta, e in quello stesso binario aspettava, invano, di rincontrarlo.

 

Reiterare annualmente la storia dell’omino d’oro aveva prodotto all’interno della scuola, tra gli studenti, tutta una serie di voci a proposito della professoressa che, vista l’età, la volevano in un qualche modo legata sentimentalmente a quella bizzarra figura che si aggirava per le strade della città quasi quaranta anni prima.
In realtà la professoressa, con quella storia, voleva attirare l’attenzione degli alunni su un particolare molto piccolo per parlare di qualcosa di molto grande. Narrare la follia di un uomo per raccontare quella di nazioni intere. Ma la follia di un uomo, molto spesso, soprattutto in una piccola città, può essere vista solo come un aneddoto di cui ridere o da giustificare con un’alzata di spalle o da ricordare quando non c’è più niente da dire.

 

La follia, se non è condivisibile, suscita per lo più dileggio o preoccupazione da parte della società. Succedeva ai personaggi in parte autobiografici dello scrittore statunitense Kurt Vonnegut: Billy Pilgrim ed Eliot Rosewater, entrambi di ritorno dalla guerra ed entrambi emarginati e considerati pazzi, il primo perché credeva di essere stato rapito dagli alieni e di poter viaggiare nel tempo, il secondo perché dedicava vita e patrimonio ai meno fortunati. Succedeva anche in classe, quando la professoressa parlava dell’omino d’oro, di come le guerre fanno male anche a chi non le combatte, e quasi sempre un coro di risatine sommesse, più concentrate sugli aspetti ridicoli della vicenda, si alzava dai banchi. Continua a succedere anche oggi, senza l’aiuto di conflitti mondiali, nei piccoli disastri di ogni giorno, nell’affrontare una realtà, per molte persone, troppo veloce e troppo spietata, dove chi rimane indietro è visto come una minaccia, e chi si volta e tende la mano come un attentatore al naturale ordine delle cose. E in una realtà così non c’è posto per l’omino d’oro, forse è per questo che intorno agli anni settanta, di lui, non si è saputo più nulla. Dice che sia morto in un appartamento fuori centro, ma voci più fantasiose pensano che sia tornato nel suo paese d’origine, molto probabilmente nello spazio. Be’, questa ipotesi non mi dispiacerebbe. Mi piacerebbe sapere l’omino d’oro in quell’infinito grembo pieno di verità e supposizioni, insieme a Billy Pilgrim ed Eliot Rosewater, magari con un uccellino sulla spalla che, ignaro di tutto il male del mondo, gli cinguetta: «Puu-tii-uiit».

Luca Giommoni

Nato a Cortona nel 1985, è insegnante di italiano per stranieri. Ha lavorato sia in scuole private che in associazioni no profit. Suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste, tra cui Effe – Periodico di Altre Narratività, Pastrengo, L’Indiscreto e sul «Corriere Fiorentino». Il rosso e il blu – Una comune favola di migrazione (Effequ, 2020) è il suo primo romanzo.

Lettura consigliata
Mattatoio n.5
Kurt Vonnegut
Per una decina di giorni, verso la fine della Seconda guerra mondiale, Kurt Vonnegut, americano di origine tedesca accorso in Europa, con migliaia di altri figli e nipoti di emigranti come lui, per liberarla dal flagello del nazismo, batté lande tedesche coperte di neve che il suo piede non aveva mai calcato. Fatto prigioniero durante la battaglia delle Ardenne, ebbe la ventura di assistere al bombardamento di Dresda da un osservatorio decisamente sconsigliabile alle persone deboli di cuore: l’interno di una grotta scavata nella roccia sotto un mattatoio, adibita e deposito di carni, nelle viscere della città. Alla fine del bombardamento, che fu uno dei più terribili e sanguinosi nella storia della guerra, quando Vonnegut uscì all’aperto, al posto di una delle più belle città del mondo c’era un’ondulata distesa di macerie sopra un numero incalcolabile di morti. Da questa dura e incancellabile esperienza nacque Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini, storia semiseria di Billy Pilgrim, americano medio affetto da un disturbo singolare ("ogni tanto, senza alcuna ragione apparente, si metteva a piangere") e in possesso di un segreto inconfessabile: la conoscenza della vera natura del tempo. Tutto è, è sempre stato e sempre sarà, passato e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno, nulla dipende dalla volontà dell’uomo. "Prenda la vita momento per momento," dice a Billy Pilgrim l’ultraterrestre che un bel giorno d’estate lo rapisce col suo disco volante, "e vedrà che siamo, tutti, insetti in un blocco d’ambra."