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La politica è l’esserci di tutti

By 12 Ottobre 2021 25 Gennaio, 2022 No Comments

La politica è l’esserci di tutti

Michele Rossi

C’è stato un tempo, non molto lontano da noi, in cui esisteva nel nostro Paese una comunità comunista germogliata dal socialismo ottocentesco soffuso di un’aureola evangelica dai predicatori delle campagne emiliane (come Camillo Prampolini e Leonida Bissolati) e una fede energica nell’avvento di una società di uomini liberi e uguali ma vaga nei destini progressivi dell’umanità, definita da Garibaldi nel lontano 1872 come «il sole dell’avvenire». Fu la miseria a far apprendere il vangelo socialista, divenuto poi comunista nel 1921, dalla cui propaganda presero avvio l’organizzazione e la lotta popolare. Ma non fu solo lotta contro la società capitalista fondata sullo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e desiderio di abbattere la proprietà privata e la suddivisione della società in classi, piuttosto un impasto irripetibile di concretezza quotidiana e speranze rivoluzionarie, utopia e pragmatismo.

 

Questo forte sentimento collettivo, che legava tra loro persone differenti per età ed estrazione sociale, trovò terreno fertile alla sua diffusione in Emilia-Romagna, dove tutto odorava di campi coltivati, fatica, sudore, speranza rivoluzionaria anche. Quando nel dopoguerra, in un’Italia ancora piegata e piagata da vent’anni di dittatura e dalla tragedia della guerra, i cittadini furono finalmente liberi di esprimere all’interno della cabina elettorale il proprio diritto di voto, la stragrande maggioranza degli emiliani appose, senza esitazione alcuna, una croce sul simbolo posto in alto a sinistra nella scheda elettorale: quello del Partito Comunista Italiano. Avevano fame di conoscenza e credevano in un futuro di redenzione per le classi lavoratrici, praticavano un’idea di giustizia e uguaglianza diversa da quella fino ad allora conosciuta: ritenevano che, combattendo uniti, le dure condizioni di vita sarebbero potute cambiare a beneficio di tutti.

 

Ma gli emiliani, come tutti gli italiani del secolo scorso, sono stati dei comunisti del tutto particolari: comunisti che non hanno mai attuato il comunismo. «Nessuna dittatura del proletariato, nessuna minaccia alle proprietà, nessuna incompatibilità con le classi medie. Tentata egemonia di pensiero, non totalitarismo. Condiscendenza verso l’iniziativa privata, non statalismo. Transito e apertura culturale, non reticolati», come ha osservato Massimo Zamboni in La trionferà (Einaudi, 2021), il suo ultimo romanzo storico-privato, in cui ha ripercorso alcune vicende storiche legate alla “Pietroburgo italiana”, Cavriago, simbolo dell’Emilia rossa del secolo breve, dove ancora troneggia nella piazza centrale del paese un busto di Lenin e su qualche muro resiste la scritta sbiadita “W la Russia”.

 

Se è vero che c’erano molti modi di essere italiani, esisteva un solo modo di essere comunisti: contrapporsi all’«Italia alle vongole», quella cioè che era stata alla base del fascismo, così definita da Mario Pannunzio negli anni Cinquanta su «Il Mondo». Era l’Italia sciatta, qualunquista, pronta a commuoversi se la nazionale di calcio perdeva una partita contro una squadra straniera, ma che poi rimaneva indifferente ai problemi della solidarietà, onestà e buona amministrazione, principi sui quali si fonda una nazione. Era l’Italia composta da italiani pieni di sentimento di tolleranza che però si scioglieva di fronte a un piatto di spaghetti alle vongole. I comunisti erano, invece, l’Italia dell’erbazzone, dei cappelletti e dello gnocco fritto: l’Italia dell’impegno. Un’Italia che credeva in un comunismo frizzante come il lambrusco, composta da persone orgogliose di sentirsi cittadini di una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

 

Lo so, è difficile da credersi, ma in Emilia a quel tempo «l’ideologia era più forte della famiglia» e si diventava comunisti non per scelta ma per vocazione. Nelle campagne, nei paesi e nelle città della pianura padana, più che altrove, la civiltà comunista era sinonimo di cultura diffusa, orgoglio, sicurezza nelle proprie capacità. In questi luoghi tutti erano avvezzi a faticare, tutti continuavano a fare quello che c’era da fare, proseguivano a lavorare di fronte a ogni disgrazia e avversità come già i loro padri e i loro nonni, e non si tiravano mai indietro. Essere comunista significava anche dedicare con entusiasmo la propria vita al Partito, lavorare come volontari alle feste dell’Unità e fino a tardi nelle Sezioni, strappando ore al proprio lavoro, alla vita familiare e agli affetti, sacrificando ferie e tempo libero. Ognuno cercava di dare il meglio di sé agli altri. Può sembrare inverosimile ma un Sindaco allora percepiva uno stipendio inferiore al salario di un operaio, e il Partito non era un apparato, una struttura fantasma, ma sempre presente nella vita della comunità, nella quale curava, con ogni strumento a disposizione, l’istruzione e l’educazione, ovviamente orientate verso la dottrina marxista-leninista. E tutti quanti, uomini e donne, giovani e vecchi, vivevano senza risparmio questa passione politica.

 

Il popolo rosso aveva un suo giornale. Si chiamava «L’Unità», il quotidiano «degli operai e dei contadini» fondato da Antonio Gramsci nel lontano 1924, che, con la fusione dei comunisti con i socialisti terzinternazionalisti, mutò in «organo del Partito Comunista d’Italia», per poi divenire dal 1944 al 1991 organo ufficiale del PCI. La domenica mattina, con un mazzo di giornali sotto il braccio, i militanti passavano dalle proprie Sezioni per ritirare il fascio di quotidiani da diffondere porta a porta nelle abitazioni della Bassa, cercando in tale modo di finanziare il giornale, magari acquisire qualche lettore o votante in più. Giovani e meno giovani sciamavano come api per le strade dei quartieri, per poi ritrovarsi prima di pranzo nella Sezione del Partito a commentare le notizie del giorno e fare alcune considerazioni. «Con un sorriso e l’impegno stampato in faccia – ricorda Zamboni, ripercorrendo il suo impegno politico degli anni Settanta – bussiamo alle porte dei lavoratori assonnati, di casalinghe scompigliate da una notte di eccessi in balera, sediamo nei salotti popolari con i soprammobili da spolverare e le bottigliette mignon nelle vetrine, con le enciclopedie comprate a rate, qualche souvenir d’oltrecortina e le inevitabili matrioske. Profumi di cucina domenicale d’Emilia, la sfoglia sul tavolo, il profumo del brodo, sono perbene io e sono perbene loro e mi sento benvoluto».

 

Andando a distribuire il quotidiano, l’autore avrà molto probabilmente incrociato, senza farne conoscenza però, per le strade o alla Sezione del Partito di Reggio Emilia, il fratello comunista del suo futuro amico e sodale artistico Giovanni Lindo Ferretti, con il quale dette vita ai CCCP Fedeli alla Linea: qualcosa di inedito e destabilizzante nel panorama musicale italiano degli anni Ottanta. Un gruppo punk dissacrante che creò un cortocircuito nelle idee correnti e nell’opinione pubblica, e che ancora crea scompiglio negli ascoltatori dei loro dischi. A partire dal loro primo lavoro discografico, il 45 giri in vinile rosso Ortodossia con in copertina tre militari della DDR al cambio di guardia, passando da Compagni Cittadini Fratelli Partigiani (un chiaro riferimento alla canzone Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei), fino ai Long Playing 1964-1985 Affinità-divergenze tra il compagno Togliatti e noi (titolo ripreso da un editoriale pubblicato sul «Quotidiano del popolo» nel dicembre 1962 dal partito comunista cinese, all’indomani cioè della presa di distanza del segretario del PCI dal movimento internazionale marxista-leninista) e Socialismo e barbarie (un’allusione al pamphlet Socialisme ou Barbarie di Rosa Luxemburg), i CCCP univano in modo sorprendente l’Islam, il comunismo e la musica melodica emiliana.

 

In un’intervista rilasciata a «l’Unità» nel 2017, Ferretti ha ricordato, con queste toccanti parole, Ilo il fratello più grande, a un anno dalla sua scomparsa: «Da ragazzo ha cominciato a frequentare il Pci e appena ha potuto permetterselo si è iscritto. Mi ha mostrato la tessera, l’ha fatto con solennità, era la cosa più importante mai decisa, certificava il suo passaggio all’età adulta. Sono stato orgoglioso di lui. Gli ho detto: se lo sa la mamma gli prende un colpo. Ha risposto: quando sarà ora glielo dirò comunque dovrà accettarlo, non può farci niente, io sono comunista. Nessuno dei due poteva allora immaginare che la mamma votasse falce e martello, molto preoccupata della busta paga con cui doveva mantenerci e nessun interesse per le ideologie, ma questa è un’altra storia. Con mio fratello l’Unità è entrata in casa. È stato il giornale di tutta la sua vita. Da giovane, prima di sposarsi, la domenica mattina faceva il diffusore e sempre ha utilizzato la maggior parte, a volte la totalità, delle sue ferie per lavorare alla Festa dell’Unità. Quando il giornale ha smesso di uscire sembrava un cane bastonato e si era ridotto a leggere la Stampa, fede bianconera e predilizione per la Fiat nazionale, ma senza soddisfazione. Non posso pensare l’Unità senza vedere mio fratello».

 

Oggi non solo il giornale storico del Pci non si trova più in edicola, ma sembra essersi dissolto lo stile di vita del militante, del simpatizzante e dell’elettore comunista che risente del prevalere implicito di una visione collettiva, che subordina desideri, speranze e bisogni al realizzarsi di una progettualità condivisa. Sono un ricordo la “disciplina di classe”, che risaliva ai consigli di fabbrica gramsciani, e la tessera della Fgci, vero e proprio orgoglio dei giovani degli anni Sessanta e Settanta. Se le manifestazioni politiche vedono la presenza in piazza di uno sparuto gruppo di partecipanti, minor richiamo hanno la ritualità civile del 25 aprile e quella lavoratrice del 1° maggio. C’è qualcuno che ricorda ancora le sagre laiche delle feste dell’«Unità», con il loro azzeccato dosaggio di intrattenimento popolare e di solennità politica, quando tutti quanti si ritrovavano sotto i teloni delle aree di discussione? Che fine hanno fatto la percezione di una possibilità collettiva di cambiamento e la capacità di sognare?

 

Ma, qualunque sia l’ideologia politica abbracciata (di sinistra o di destra), c’è solo una modalità di vita degna di essere vissuta: vivere senza risparmiarsi. In ciò si mostra la vera capacità dell’essere umano: nel non trincerarsi, non chiudersi in se stessi, ma nel dare il meglio di sé seguendo un’idea, nell’usare al massimo il proprio talento per realizzarsi. “Il mondo è vostro la situazione è eccellente”, proclamavano i CCCP Fedeli alla Linea: un invito, il loro, a prenderci in mano la nostra vita e costruircela in base alle nostre voglie. Esistono, infatti, infiniti spazi in cui poter esercitare autonomia di pensiero e da esplorare proprio con la nostra avventura esistenziale. Nessuno ci obbliga a stare fermi. Dobbiamo esserci, perché tutto è possibile, basta volerlo.

Michele Rossi

Due lauree, dottore di ricerca in Italianistica, è saggista e organizzatore di eventi culturali. Tra i suoi libri: Una sola moltitudine. Saggio sull’identità italiana (Rubbettino, 2012); Italiani ieri e oggi. Letteratura e storia repubblicana (Fondazione Boroli, 2013); Quello che deve accadere, accade. Storia di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni (Giunti, 2014) e Lottare per scelta c’era una volta la Resistenza (Helicon, 2019). Ha ideato e cura la collana editoriale “Occhio di bue” (Helicon), dedicata a opere e a autori dimenticati della grande tradizione letteraria italiana dell’Ottocento e del Novecento.

Lettura consigliata
La trionferà
Massimo Zamboni
Attraverso la storia incredibile di una terra dove la fedeltà al Partito era sacra e il vento dalla Russia soffiava forte, Massimo Zamboni fa i conti con la grande utopia del Novecento in modo davvero originale: al centro di questo appassionato racconto corale, ci sono l’Emilia e la cittadina di Cavriago, e le peripezie dei suoi abitanti. Quando nel 1919 spedirono un telegramma di solidarietà alla Russia rivoluzionaria e qualche mese dopo, nel giorno della fondazione dell’Internazionale comunista, Lenin nel suo discorso lodò il coraggio di «quell’angolino sperduto», che aveva cercato invano sulla carta geografica. O quando parteciparono alla «conferenza del secolo» al teatro di Reggio Emilia: un dibattito sull’opportunità di concedere l’autorizzazione alle riprese del film su Peppone e don Camillo. O quando, nel 1970, inaugurarono con «un brivido di commozione» il busto di Lenin nella piazza del paese, davanti a una delegazione ufficiale del Pcus. Per poi saltare fuori dai loro letti caldi a montare la guardia al monumento di bronzo minacciato da qualche tentativo di decapitazione. Sognatori e realisti, gente con la testa dura e un senso fortissimo di fratellanza, i protagonisti di questa storia sono donne e uomini dall’inesausta passione politica, cittadini del grande mondo, nelle cui vicende c’è tutta la forza e la persistenza, infine la nostalgia, di quello slancio ideale, folle e meraviglioso che li faceva sentire di essere dalla parte giusta. Con «una dose di commozione, una di sarcasmo, una di pratico ed emiliano senso di disincanto», Massimo Zamboni ha spesso scritto e cantato la dissoluzione di quel tempo, ma qui ce lo spalanca di fronte agli occhi intatto e pieno di vita, di rabbia e struggimento, regalandoci l’epica di una memoria da cui ripartire, l’epica di una terra dove la bandiera rossa sventolava piú in alto di tutti.