Io e G. siamo in mezzo al deserto dei Gobi insieme a Gighe, ragazzo mongolo che parla inglese e quindi fa la guida, due giovanissimi israeliani reduci da tre anni di militare, e l’autista del van, che non parla inglese ma lo canta moltissimo. È inizio settembre.
Dei parenti nomadi di Gighe ci hanno ospitati per un paio di giorni nelle loro ger e abbiamo potuto anche lavarci, riempiendo le taniche per la doccia da campo a una fonte non troppo lontana. Non succedeva da diversi giorni.
Oggi partiamo e Naran verrà con noi. Naran è il cugino di Gighe, ha nove anni e deve raggiungere il villaggio dove abita il padre per ricominciare la scuola. Dista circa nove ore di auto e per sgranchirci le gambe ci fermiamo sotto delle dune di sabbia relativamente basse e dolci. Saliamo e scopriamo dietro la prima duna un piccolo mare di sabbia increspato d’altre dune. Meraviglia. Nessuno ci aveva mai detto che quello è il parco giochi più bello che esista. A piedi nudi corriamo giù, scivoliamo, prendendo la rincorsa risaliamo, rotoliamo, ci rotoliamo, la sabbia è tiepida, morbida, dolce; e quando di nuovo scendiamo giù dalla duna più alta ai nostri balzi la Terra risponde con un rimbombo, come fosse il suo verso, tellurico e stupefacente e a noi balzando sopra la sabbia par di volare. Per Naran quello è il parco giochi di sempre, per noi è nuovo e lui si diverte e guarda noi, divertito del nostro entusiasmo. Poi lo osservo io, mentre torniamo al van. Noi avevamo lasciato giù le scarpe, al confine fra sabbia e steppa, lui invece se l’era portate su, per paura di perderle: non è facile poi lì trovarne delle altre. Le ha legate fra loro con i lacci e ora è intento a trascinarle giocando come se in mano avesse un guinzaglio. Tira, controlla che lo seguano. Provo a tradurre il suo gesto e immaginare ciò che sta immaginando.
Il mio primo pensiero va a un cane. Dura un istante, poi mi viene in mente una cosa sorprendente e bellissima: no, non sta immaginando un cane, perché lui un cane al guinzaglio non l’ha mai visto. Un cammello, certamente, di cui tiene le briglie. O tuttalpiù un cavallo. All’accampamento di ger dove stava con sua madre però di cavalli non ce n’erano. Di cammelli sì, è l’immagine più quotidiana, e nei suoi occhi quelle scarpe ora devono essere proprio un cammello. Lo sguardo placido e sornione, il pelo beigiolino, le gobbe, la sella quasi comoda. Non glielo posso chiedere, non abbiamo nessuna lingua in comune, ma scommetterei che i suoi occhi ora vedono quello.
Nessuna lingua in comune l’abbiamo nemmeno con Oyuun. Oyuun è un uomo vecchissimo, ha il volto inciso di profondissime rughe e sorrisi – sorrisi di occhi e di bocca, tutto sorride, fra le rughe. Per una giornata intera cavalchiamo con lui. Cavalli bassi, poco più grandi di un pony, con cui attraversiamo steppe e praterie. Il mio galoppa come un pazzo e io mi diverto un mondo mentre Oyuun mi urla arrabbiato di tornare nei ranghi. Obbedisco ogni tanto, poi riparto, lui comunque sorride. I due ragazzi israeliani proseguiranno il loro viaggio a cavallo con Oyuun, io e G. insieme a Gighe, l’autista del van e il van cominceremo il viaggio di ritorno per Ulan Bator: fra due giorni dovremo salire sull’ultimo treno utile per arrivare in tempo a Pechino e volare in Occidente.
Nel tardo pomeriggio li aiutiamo a montare le tende per la notte e lasciamo a loro i nostri cavalli: ne avranno bisogno per trasportare i bagagli. Stiamo per salutarli e raggiungere il van. Gighe si ferma, sembra essersi ricordato qualcosa di importante, parla in mongolo con Oyuun. Poi spiega: gli ho detto che “Stop” vuol dire fermarsi. Così avete almeno una parola in comune.
Orundurun, è l’ultima parola magica che ascolto in Mongolia. È un suono e alle mie orecchie risuona così: Orundurun.
Io e G. siamo state coinvolte in una partita di pallavolo a cui partecipa un’intera famiglia mongola, i giocatori hanno fra i 4 e gli 80 anni. Comunichiamo a gesti perché non abbiamo nessuna lingua in comune.
Le regole del gioco quantomeno sembrano essere vagamente le stesse che G. conosce bene – e io molto meno. Siamo in squadre avversarie e gli altri hanno fatto evidentemente un migliore affare prendendosi lei. Vincono alla grande, si direbbe. Anche se sembra esultino sempre tutti, anche i miei. Spessissimo urlano una parola che alle nostre orecchie suona così: Orundurun. Non a ogni punto, però spesso. È l’unica parola che riusciamo a isolare da quella comunicazione misteriosa da cui siamo escluse e stregate. Orundurun, scivola via in un incantesimo, non si posa su nulla, forse è un numero e loro maghi dei numeri, i numeri già portano ad altri deserti, con sabbia gialla e mercanti arabi, e ancora prima alla Persia e originariamente all’India. Soggiogate dal canto di questa parola giochiamo e ridiamo, ridiamo e giochiamo, prendiamo, battiamo, passiamo la palla, a un bimbo che barcolla e cade e ride anche lui, una donna agguerrita che fa punto, o lo subisce, e sorride ugualmente, un anziano che non fa molto ma sta comunque in mezzo al campo, si muove, interviene, fa parte della comunità. Tutti parlano e ridono, noi sentiamo solo Orundurun.
Quando finalmente tutti sono stanchi, soprattutto di ridere, soprattutto io e G. che abbiamo gli addominali indolenziti dal tanto ridere in quest’improbabile partita intergenerazionale di pallavolo, raggiungiamo Gighe. E finalmente gli chiediamo cosa voglia dire questo abracadabra ripetuto da tutti con occhi scintillanti e gioiosa complicità.
Gighe ci pensa su un istante, sembra poco convinto, poi sentenzia: “Orundurn può voler dire o due, tre, oppure quattordici”.