Ho passato gli ultimi cinque anni della mia vita lavorando in un centro d’accoglienza. Tra le mie mansioni c’era anche quella di preparare il richiedente asilo alla commissione territoriale, l’organo che, dopo aver ascoltato i motivi che hanno spinto il richiedente a lasciare il suo paese, valuta e decide in merito all’accoglimento o al diniego della domanda di protezione internazionale.
Per me era uno dei momenti più difficili da gestire. Non sapevo mai cosa avrei potuto e dovuto ascoltare. Ho sentito centinaia di storie: alcune improbabili, altre atroci, ma tutte con la stessa tonalità di disperazione, una disperazione che, anche quando assumeva i contorni della verità più semplice e legittima, non sempre trovava protezione in qualche legge.
Tra tutte le storie ce n’è una che faticherò a dimenticare, anche perché ne esiste una simile in un libro.
Con le giuste differenze, entrambe le storie riguardano sabotaggi, ma di quelli volti a preservare vite, non a distruggerle. Una me l’ha raccontata Joseph Heller, in Comma 22, attraverso Yossarian, il protagonista del libro, costretto a combattere una seconda guerra mondiale che non fa per lui, impegnato nell’escogitare infiniti modi per rimandare l’incontro con il fuoco nemico. L’altra me l’ha raccontata Sissoko, parlandomi delle cause che lo avevano spinto a lasciare il Mali.
Dopo aver ascoltato la storia di Sissoko, data la somiglianza con quella del romanzo, non sono riuscito a non domandargli se per caso avesse letto il libro in questione, dicendogli che trovavo assurda una coincidenza del genere, ma lui, in un francese sgrammaticato, mi ha risposto soltanto che la scuola più vicina al suo villaggio in Mali era a ottanta chilometri e che in mezzo c’erano le mine, ma che se il tipo del libro aveva visto la gente morire come l’aveva vista lui, allora non era da escludere una reazione del genere, che le persone in situazioni simili si arrangiano con il poco che hanno pur di salvarsi la pelle.
Sissoko era fuggito dal Mali e non poteva farvi ritorno perché temeva per la sua vita, dopo che gruppi separatisti jihadisti avevano armato gli abitanti del suo villaggio, la sua famiglia, i suoi amici, costringendoli a combattere della gente con cui fino a un mese prima non avevano avuto nulla da ridire. E tutto per riprendersi dei terreni che, secondo i gruppi armati, spettavano di diritto ai contadini Fulani e che i Dogon, vicini di casa da sempre, avevano occupato per troppo tempo.
Lui e sua madre, però, consapevoli che i Dogon, supportati e armati dall’esercito francese, non avrebbero gradito quella visita improvvisa, alla fine, avevano deciso di aggiungere scaglie di sapone, per due settimane di fila, a qualunque piatto cucinato, garantendo mal di pancia a ogni membro del villaggio e rendendo delle latrine l’unico posto sicuro sulla Terra.
Modus operandi identico a quello di Yossarian, che intossica tutto il suo reparto per posticipare i bombardamenti aerei su Bologna e sottrarre giovani vite, anche solo per pochi giorni, alla contraerea nemica.
Una vigliaccheria di questo tipo, a mio avviso, merita un riconoscimento speciale, che sia una medaglia al valore o un accoglimento di protezione internazionale.
La domanda di Sissoko non è stata accolta. L’ho accompagnato a fare ricorso al tribunale civile. Poi è passato il tempo sufficiente per perdersi di vista senza che nessuno dei due lo volesse veramente.
Di recente mi ha chiamato. Ha trovato un lavoro. Un lavoro che non gli impedirà di alzarsi dal cuscino senza pensieri ma che davanti al giudice potrà essere utile per ottenere un permesso di soggiorno, di un anno.
«Un anno tanti giorni» mi ha detto.
Sissoko vive.