Roma è città di ferite aperte, un enorme bagordo di garze e disinfettanti prova a tenere dentro il sangue che copioso a fiotti vorrebbe mescolarsi con l’acqua del Tevere, un tempo “biondo” ora verdastro di liquami.
In questo dedalo di spaesamenti, di dolori, di vite irregolari, di doppiezza la città ha trovato da dieci anni a questa parte un suo esatto corrispettivo letterario: il vicequestore Rocco Schiavone, nato dalla penna di Antonio Manzini. Era il 2012 quando comparve per la prima volta sull’antologia Capodanno in giallo (Sellerio) col racconto “L’accattone”; il vicequestore, all’epoca alle prese con un caso di omicidio di un clochard avvenuto in un mercato rionale era ancora a Roma, di li a poco sarebbe stato trasferito ad Aosta per aver picchiato uno stupratore che si rivelò essere il figlio di un potente sottosegretario.
Il destino di Schiavone è quello dell’esule, dell’esiliato, di colui che sfruttando una decisione ingiusta si rinchiude ancora di più nel suo dolore, nel cinismo e in una realtà che ammette i fantasmi di un amore morto ammazzato in un conflitto a fuoco, sua moglie Marina, l’unica entità in grado di sollevare lo sguardo di Schiavone dalle miserie della vita.
Marina morendo lascia Schiavone da solo con una casa piena di ricordi, una città, Roma, che sa infliggere solo una punizione dietro l’altra. La consolazione per Schiavone sarà il fantasma di Marina, l’amore che resiste alla storia malandata dei suoi giorni. In questa entrata e uscita del “fantasma” della moglie si rivela sin da subito la grande capacità narrativa di Manzini che sa affondare nelle viscere del ricordo, del lutto e della morte la sua penna, sfuggendo alla retorica funebre e incollando il personaggio ad una dimensione paritetica. Marina è in un altro luogo, non sta nel presente del racconto e neanche nel rimpianto, è una sorta di guida per l’antieroe, un Virgilio sentimentale che conduce Schiavone non a darsi risposte ma a centrare nuove domande, ad entrare in modo realistico dentro i meandri dei problemi che incontra.
Nel primo romanzo La pista nera (Sellerio, 2013), la percezione esatta di cosa sono i crimini per Schiavone appare già evidente: “una rottura di coglioni del decimo livello”. Non quindi l’atteso enigma che il tutore dell’ordine aspetta con ansia per dimostrare al lettore la sua capacità investigativa che si ritrova in quasi tutti i gialli continentali ma il problema da scansare, l’inevitabile da evitare, la rottura di coglioni appunto.
Al lettore, per chiara volontà di Manzini, non rimane tanto la stima per il vicequestore e le sue abilità, ma lo schifo che Schiavone incontra. È nel meccanismo dell’indignazione cinica, della certificazione che siamo un’umanità senza speranza, che ci arruoliamo tutti nella squadra operativa di Rocco, perché lo schifo nei confronti degli assassini, degli ‘ndranghetisti che affollano la valle, di uomini che picchiano le proprie donne, di colleghi che tradiscono e di uno Stato sempre più debole è lo strumento per capire la complessità della nostra trama pubblica e del vivere quotidiano.
In questo senso Manzini con leggerezza ci prende a schiaffi e ci ricorda che le cose sono sempre diverse da quelle che vediamo, che il manicheismo è la cifra sbagliata per leggere questi tempi.
Schiavone è granello di sabbia dentro il sistema, un sistema che gli perdona la “canna” mattutina, i modi bruschi e gli amici delinquenti fino a farli diventare materia di ricatto. E così il trasferimento, l’essere irregolare, l’avere una serie di misfatti sulle spalle diventa materia viva che non ci fa solidarizzare col vicequestore ma crea un insperato meccanismo di consolazione, perché in misure variabili i nostri buchi neri si somigliamo tutti.
L’irregolare Schiavone oscilla in un tessuto di relazione disordinato e ammetterà nell’ultimo libro Le ossa parlano (Sellerio, 2022), che alla fine di un complesso giro di vite gli unici a rimanergli davvero fedeli e vicini saranno proprio i suoi uomini, il suo gruppo operativo in questura che Manzini ha la cura, fin dai primi libri, di non far scivolare mai nell’insopportabile macchietta che spesso troviamo in tante storie di guardie e ladri, ma i suoi Casella, D’Intino, Pierron, Scipioni, Rispoli, Deruta, il medico legale Fumagalli, il questore Costa e il procuratore della Repubblica Baldi sono dei personaggi a tutto tondo, che nei vari fatti di sangue che si avvicendano nei romanzi fanno da ponte con la vita normale che continua, costituiscono alle volte la linea comica del quotidiano.
Le vite di Rocco Schiavone che in questi dieci anni di presenza abbiamo imparato a leggere sono irrequiete, il passo delle Clarks, il loden anche sotto zero, la cagnetta Lupa che accompagna il vicequestore sono gli elementi materici del viaggio dell’antieroe, che torna spesso a Roma, città maledetta che odora di asfalto e tabacco, per morire un pò di più. Una sensazione che solo chi scende per visitare in rassegna i defunti, per contare le ossa, per respirare quell’insopprimibile aria di chi non c’è più e per fumarsi qualcosa mentre il fiume scorre può sentire, un’apologia delle perdita e della riscossa, in cui tutto lo schifo che ci si sente addosso viene spazzato via da una carezza tra i capelli, che sia vera o immaginata.