Io credo che certi romanzi arrivino tra le nostri mani per percorsi, spesso, incomprensibili. È difficile parlare di caso quando si entra in una libreria con cadenza pressoché quotidiana, ma davvero fu quello quando vidi per la prima volta I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni: fui attratto dal blu della copertina e dal formato, molto simile a quello della collana “Assonanza” che pubblica l’editore SE. Maneggevole come un quaderno, il colore era quello che la casa editrice Sellerio sceglie per ogni suo volume: ricorda il mare, che è un richiamo fortissimo. Chi fosse l’autore era difficile da stabilire: nell’aletta posteriore se ne cavava poco. L’autore “(1995) è nato e vive a Sarzana. Questo è il suo primo romanzo”: le uniche informazioni. Chiesi ad Andrea della libreria fiorentina “L’Ora blu” – anche qua il medesimo colore che è richiamo fortissimo – se sapesse chi fosse questo Zannoni: rispose che il libro era arrivato proprio quella mattina. Lo rigirai tra le mani, lo aprii e lessi l’incipit: “Mio padre morì perché era un ladro”. Chiusi le pagine, lo comprai. Me lo dirai tu chi è questo Zannoni, disse Andrea. Te lo dirò io, promisi. Ci salutammo.
Si era quasi alla fine di agosto del 2021: pochi giorni dopo sarebbero arrivate le mie vacanze, che è il momento ideale per uno che ama leggere senza interruzioni. Avevo fatto scorta di libri, molta scorta: quel libro era tra quelli scelti. Lo infilai nella sacca assieme a quello che stavo leggendo, qualcosa come 1500 pagine: lettura difficile che mi ero imposto per una serie di motivi. Quello di Zannoni – mi ero detto – servirà al mio defaticamento, come quando – scientemente – durante una corsa decidi di rallentare per tirare il fiato. Scelsi di farlo il pomeriggio: era il 30 agosto. Avevo mangiato leggero, fronte mare, nel bagno che quella estate sarebbe diventato il mio bagno: lì avevo scoperto un bagnino giovanissimo che mi aveva onorato nel farmi leggere un suo racconto (bello, fra l’altro), un altro bagnino – anche lui simpaticissimo e attorniato da ragazzine estatiche – che avevo ribattezzato il Lonfo e un piccolissimo vacanziero di pochissimi anni che avevo chiamato Braghetta. Più che in un bagno, mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo e di avere – quasi per magia – i loro 20 anni. E di essere nel mio paese, quando il mio paese era un paese.
Presi con questa testa il libro di Zannoni: fu la mia fine. Io, che amo leggere sottolineando i libri, non riuscivo a farlo perché le parole mi avevano rapito e andavo avanti, continuavo il romanzo, ci ero dentro. A pagina 177 – di quella lettura ricordo tutto – mi alzai dal lettino e piansi. Quello che avevo appena letto era magnifico: crudele e poetico, era la verità senza che fosse la verità. Zannoni parlava delle parole e dell’effetto che le parole possono fare, raccontando la storia di Archie, una faina che cresce nella casa di una volpe che si chiama Solomon. Lo divorai, il libro. C’era tutto: il sesso, l’amore, l’egoismo, Dio, il paganesimo, gli animali e anche gli uomini, la cattiveria e la determinazione, il destino, la solitudine. C’era Esopo, ci trovai i Vangeli agnostici, ci riscontrai la Bibbia: era una scrittura “atea cristiana”. Ed era una scrittura di narrazione pura, una fiaba che era pura mitologia. E lo era ai giorni nostri. Ne rimasi sconvolto: la sera stessa – visto che non trovavo nulla su Zannoni – chiamai un mio collega che lavora al Secolo XIX: è un cronista di nera come me. Trovami un cazzo di numero telefonico di uno scrittore che si chiama Bernardo Zannoni e sta a Sarzana: gli dissi. Due ore dopo avevo il suo cellulare.
In un libro un tipetto come Chuck Palahniuk scrive che non è necessario conoscere gli scrittori: molto spesso sono una delusione, leggi i libri e non li conoscere. Pensai a questo quando – dopo aver parlato con Zannoni – stavo andando invece a conoscerlo nella sua città. E ci andai spinto dalla curiosità, che è il propulsore del mio lavoro. E anche da una certezza: non mi sarei trovato di fronte un ragazzo, ma uno di quegli autori che hanno segnato la mia vita. Avrei conosciuto un “classico”: un po’ come aver la possibilità di parlare con Berto, Delfini, Gadda, Parise o Arpino. Glielo dissi anche, dopo un po’ che eravamo seduti e parlavamo e lo riempivo di domande. E lo ripetei anche di fronte al Firenze Books quando presentai lui e il suo libro dopo averlo praticamente imposto agli organizzatori: o viene Zannoni o non vengo.
Io davvero non so che cosa possa voler dire un libro per le persone, ma per me – in questo caso – ha significato tutto questo. E ha anche significato aver iniziato un’amicizia con il ragazzo di 27 anni che mi ha fatto piangere di bellezza per il libro che ha scritto. E oggi significa – anche – chiamarsi con dei diminuitivi: per me è Berni, per lui sono Simo. Quando ci vediamo – e capita – lo ascolto con molta attenzione: è una fortuna. Marco Missiroli nella quarta di copertina de I miei stupidi intenti ha scritto: “Leggetelo, leggetelo questo romanzo in stato di grazia”. È esattamente così: Berni non è uno scrittore, è uno stato di grazia.