Il lunedì, nell’ufficio in cui lavoro, è sempre un giorno particolare, il giorno in cui alle porte si accalcano i personaggi più improbabili, gente ansiosa di essere ricevuta con la massima urgenza, persone con lo sguardo tagliato in due, piene di livore, in palese stato confusionale.
Il fine settimana con ogni evidenza concede troppo tempo libero per pensare, e tutti — impiegati e utenti — trascorriamo due intere giornate a riflettere su cosa effettivamente possa essere andato storto rispetto ai piani iniziali, su quale sia il peccato originale, quale la matrice dei nostri errori.
Lavoro in un Patronato, che è l’anello mancante tra l’INPS e il resto del mondo. Un ente privato che fa le veci del pubblico con tutte le incertezze del privato, e senza i vantaggi del pubblico. Mi occupo, tra le altre cose, di Sportello Lavoro, che è la parte più ‘sindacale’ del nostro ufficio, un sindacato che però non ha i poteri giurisdizionali di un sindacato. Un non-sindacato, quindi.
La natura ambigua e indefinita del mio sportello, anzi del mio lavoro, unita alla naturale incertezza che sta alla base di qualsiasi rapporto umano, fanno in modo che dalla mia scrivania transiti un’umanità varia e vasta: gli umiliati, i confusi, color che son sospesi.
Quel lunedì, dopo una badante che pretendeva di conoscere i propri diritti e un signore che voleva avere informazioni sulla destinazione del proprio TFR, arrivò un ragazzo, molto giovane, meno di venticinque anni, un tipo alto, originario della Macedonia credo, o comunque dell’Est Europa. Si sedette di fronte a me e la prima cosa che gli uscì di bocca fu una lamentela: aveva mandato una mail a cui nessuno aveva risposto. Aveva un’ottima proprietà di linguaggio e uno sguardo triste e arrabbiato.
“Quando hai mandato la mail?”
“Venerdì pomeriggio”
“Intendi, questo venerdì pomeriggio?”
“Esatto”
Lavorava come portiere di notte in un piccolo albergo. Nascosta in fondo ai suoi occhi, oltre al senso di avvilimento e di oppressione, la supponenza dei vent’anni, di chi crede ancora — e a ragione — che basti interagire con l’ambiente circostante per modificarlo, che, infondo, non esistano persone cattive o meschine. E che se spedisci una mail di venerdì pomeriggio è possibile avere una risposta prima del lunedì mattina.
Il datore di lavoro aveva trovato la perfetta maniera per umiliarlo, demansionandolo, cambiandogli i turni all’ultimo minuto, dandogli torto su qualsiasi argomento, trattenendo soldi dalla busta paga con qualsiasi scusa. Il padrone, come lo chiamava lui, sapeva che il ragazzo avrebbe dovuto rinnovare a breve il permesso di soggiorno, e quel posto se lo doveva tenere stretto se non voleva avere problemi, se voleva restare in Italia. Qualche mese prima gli aveva anche mandato una lettera di richiamo per ragioni inesistenti.
“Non so più cosa fare, davvero…” quel ragazzo era nervoso e si muoveva a scatti. Sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro.
“Beh, per prima cosa dovresti provare a parlare con il tuo datore di lavoro. La maggior parte dei problemi si risolve così” feci.
“Credi che non ci abbia provato? Quello non mi ascolta. Anzi, non solo non mi ascolta: qualsiasi cosa dica o faccia non fa che peggiorare la mia posizione. Io non ce la faccio più!”
“Hai provato a passare all’Ispettorato del Lavoro? È lì che vai se devi far denuncia”
“Ci sono andati dei colleghi all’Ispettorato ed è solo peggiorata la situazione, per tutti — e poi, con gli occhi sinceri e disperati aggiunse — non so davvero più cosa fare. Non so dove sbattere la testa… Se continua così io — lunga pausa drammatica — giuro che mi ammazzo…”.
Guardai quel ragazzo negli occhi. Non potevo fare nulla per lui. Però capivo il suo senso di scacco, la sua sensazione, vivida e reale, di essere finito in trappola. La frustrazione di non avere nemmeno una mossa a disposizione. «Gli oppressi — scriveva Franco Fortini nella bellissima Traducendo Brecht — sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli / parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso / credo di non sapere più di chi è la colpa».
“Non dire così — gli feci — una soluzione si trova sempre”.
Non potevo far niente per lui, aveva semmai bisogno di un sindacato. Ma lì, mi aveva detto, non ci voleva andare. Lì non fanno altro che prenderti in giro. Mi venne allora in mente un libro che ho amato, e gliene parlai. Si chiama Chi me l’ha fatta in testa? , ed è un libro per bambini, la storia illustrata di una talpa che una mattina si sveglia e si trova sopra la testa un enorme escremento, a mo’ di cappello. Arrabbiata e indignata, comincia ad indagare andando a chiedere ai vari animali se fossero loro i colpevoli. Questi si discolpano defecando davanti ai suoi occhi per dimostrare che i loro bisogni hanno forme diverse rispetto a quella che ha in testa. La talpa allora si rivolge alle mosche, vere e proprie esperte del settore, che le rivelano che il colpevole è un cane. La talpa allora sale in testa a Gian Maria, il cane del macellaio, che sta riposando nella propria cuccia, gli deposita sopra la fronte una deiezione davvero minuscola, dopodiché se ne ritorna trionfante nella sua tana.
Il ragazzo aveva seguito tutta la storia con il sorriso sulle labbra.
“Vedi? — gli avevo detto — Una soluzione si trova sempre. Magari non sarà un gesto così eclatante come ce lo siamo immaginati, forse servirà a poco, ma serve. Se puoi fare qualcosa, falla. Considera magari di andare all’Ispettorato per far denuncia, o di andare presso un sindacato”
“Va bene — fece lui alzandosi — ci penserò su…”
“Mi dispiace solo non poter fare molto di più per te se non offrirti questo consiglio di lettura”
“È già abbastanza” mi rispose con gli occhi più rilassati rispetto a quando si era messo seduto.
Mi auguro che quel ragazzo con gli occhi tristi e supponenti si sia rimesso in piedi. Che magari sia riuscito a trovare il libro consigliato. Che se lo sia letto, facendoci sopra due risate. Che abbia ricominciato a respirare. Che sia riuscito a fare qualcosa, magari un gesto minimo, che l’abbia emancipato dalla schiera degli oppressi. A volte, davvero, basta poco. Anche rilasciare un minuscolo escremento sulla testa di un cane.