Dobbiamo rispondere al tempo interiore. In una pausa come quella che siamo costretti ad avere, una pausa da noi stessi e dal mondo intero, appare banale considerare quell’elemento così poco compreso, così poco assecondato, degli istanti che compongono il nostro tempo interiore. Oggi sembra che non ci siano fiumi in piena in cui immergersi per tentare di prendere le distanze da quelle voci nella testa, né famiglie perfette da agghindare, da mostrare nel loro lato meno disordinato, più ordinario, meno rifinito, né feste da organizzare o premi da ricevere o da assegnare o vestiti belli da indossare: c’è l’umanità espressa in ogni minuscolo dettaglio e c’è l’individualità alle prese con le sue paure e i suoi pensieri più antichi, ci sono un tempo e uno spazio ristretti che assumono la forma dei nostri corpi.
“Ma ci sono ancora le ore, no? Una e poi un’altra, passi una e poi, mio Dio, dopo c’è l’altra”.
Le ore sono solo uno degli elementi del tempo, sono dei frammenti che ridotti ulteriormente danno la concretezza ai minuti e allargati formano le giornate intere, e di frammenti, oggi, siamo fatti anche noi, mai uguali l’uno all’altro, mai uguali nemmeno alla più contraddittoria natura di noi stessi. Ed è ciò che si scopre in questa immobilità forzata, che la coerenza delle forme, l’adesione perfetta ad un contorno da noi stessi costruito non può attualizzarsi. Il contesto dà la chiave di lettura: quindi senza contesto in che modo possiamo leggerci? In che modo possiamo leggere i frammenti della nostra personalità?
Sono i nostri conflitti più profondi a renderci unici, le nostre pulsioni più nascoste che nella solitudine diventano più selvagge, più concrete. Questa dimensione privata è contemporaneamente pubblica perché è quella in cui tutti, indistintamente, siamo rinchiusi.
E quindi soppesiamo, valutiamo, promettiamo, forziamo un pensiero, sforzandoci di credere che sì, andrà tutto bene. E anche io, alla fine, ci penso, in questa reclusione improvvisa e innaturale, che potrei rinascere, che potrei davvero toglierle le radici marce e umide, che potrei davvero lasciare che quel fiume in piena inondi la camera da letto e lavi via il superfluo.
E me le immagino, quelle persone a cui sono costantemente connesso, me le immagino annegare nel mio stesso fiume e nei miei stessi pensieri, come se fossimo gli uni le proiezioni connesse degli altri, con le stesse idee, le stesse sensazioni, le stesse emozioni, le stesse follie.
C’è, immagino per tutti, quel momento nella vita in cui ci sforziamo di fare in modo che determinati tempi e spazi coincidano con quello che ci aspettiamo, con quello che esigiamo da noi stessi. Esigiamo che le persone che abbiamo intorno si comportino esattamente come abbiamo pensato, esigiamo che il ritmo stesso delle stagioni aderisca a quella idea di fondo che noi abbiamo progettato, esigiamo che il nostro stesso corpo obbedisca alle imposizioni che ogni mattina ci prefiggiamo. Tempo fa questa è stata anche la mia condizione.
Ho un’amica, che chiamerò Laura, che ho perduto e che ho poi ritrovato. Abbiamo vissuto insieme, era uno dei miei sogni quello di condividere con lei gli spazi delle nostre quotidianità e i tempi delle nostre convenzioni, ma purtroppo il periodo in cui è successo è coinciso con questo forzarmi innaturale, con questo tentativo di essere qualcosa – non qualcuno – che non ero, perché quello che ero non mi andava più bene. Una sera, di ritorno da una di quelle serate che pianificavo, che ero determinato affinché riuscissero bene, meravigliosamente bene, nella convinzione che il nostro rapporto fosse di quelli unici e speciali e indissolubili, lei mi disse che non aveva più un amico. Erano ormai due anni, infatti, che lei non vedeva più in me la persona che aveva ammirato, stimato, apprezzato, verso cui sentire quell’amore che si prova per le persone che si conoscono, davvero. Avevamo vissuto in un tempo così dilatato e distorto che eravamo finiti su due pianeti differenti, lontani da quella dimensione domestica che così affannosamente tentavamo di costruire.
Ed è qui, quindi, l’illusione della connessione, ci sono gli spazi e i tempi che non coincidono, che non possono coincidere quando smettiamo, quando ci rifiutiamo di conoscere persino noi stessi. Gnoti sauton, conosci te stesso, nosce te ipsum, diceva Oceano a Prometeo: un precetto così semplice e difficile che permette di far funzionare questa connessione con l’altro così tanto auspicata.
E quindi perché non assecondarla questa immobilità? Perché non permettiamo a questa inazione di sconvolgere la nostra vita ferma? Che la lavi, che la anneghi, che la riporti alla luce. Lasciamolo affondare con dei sassi nelle tasche questo senso di inadeguatezza, permettiamo a questo fiume di diventare parte della nostra quotidianità e di darci il senso di una nuova vita.