“Se vuoi che Michael dia il meglio, digli che è un incapace. Per lui diventa una sfida personale dimostrare che hai torto”.
Che cosa ci ha (anche) raccontato The last dance, il documentario a puntate su Michael Jordan trasmesso da Netflix? Un ragazzino apparentemente normodotato cui a un certo punto scatta qualcosa che lo nutre, percuote, rischia di rovinarlo ma infine lo glorifica. La chiamo ossessione. MJ non se ne libererà mai, è quella luce che scorgiamo negli occhi di chi è stato al centro del mondo. Ha visto tutto e dominato tutto. Saltato sopra atleti portentosi con agilità e sudore e costanza. Il numero ventitré, il numero uno. L’ossessione. Non esiste motore altrettanto potente.
“Penso che l’arte sia un’ossessione per la vita, e dato che siamo esseri umani, la nostra più grande ossessione è quella per noi stessi” sosteneva Francis Bacon, arte sul suo corpo e uomo dei più complessi e perciò addirittura perfetto nell’incarnare lo stereotipo dell’artista che ci piace intendere. Il suo atelier come un set cinematografico che tutti pensiamo di poter calpestare e frequentare senza sentirne il tormento e la fatica. Errore. Anche qui i suoi passi, i suoi deliri tossici e alcolici e tremendi non li possiamo misurare senza un termometro che si rompa e ci riporti i salti e i disastri di una sterminata ossessione per quello che si fa, per quello che si riesce a voler fare, nella vita.
Il mitologico e arci raccontato metodo di Georges Simenon per confezionare i suoi romanzi: quindici giorni (poi cambieranno nella carriera) tutti uguali, regolati da orari e rituali sempre identitici, militari. L’elenco telefonico, le passeggiate, la busta gialla, le pipe, le matite temperate. I suoi tanti romanzi. Centinaia. Una produzione intensa e devota che lo accompagna per tutta la vita, tranne nella vecchiaia quando l’ossessione, le sue tante ossessioni, lo abbandonano, forse vinte anche loro dall’uomo che abitavano. Donne, soldi, viaggi, traduzioni. Tanto di tutto, per voler essere sempre il più bravo. Non lo sarà mai, non glielo diranno mai. Nemmeno la madre Henriette, che gli preferirà sempre il fratello Christian. La smania al foglio di Simenon, guidata dal leggendario e quasi esoterico état de roman, è il grido muscolare di una insofferenza alla vita.
Nel film Shining Jack Torrence, interpretato da uno strepitoso Jack Nicholson, uccide Dick Hallorann con un’ascia. È una scena importante, suggestiva, sconfortante. Muore un buono, un alleato del bambino e della luccicanza. Stanley Kubrick avrebbe voluto ripetere la scena circa settanta volte, prima di decidere il ciak definitivo, ma venne consigliato dallo stesso Jack Nicholson ad accontentarsi di una quarantina di tentativi, vista l’età anziana dell’attore Scatman Crothers. Ancora Kubrick in Eyes Wide Shut farà attraversare novantacinque volte una porta a Tom Cruise, in effetti più giovane, prima di scegliere il passaggio migliore.
Carlo Ancelotti, allenatore di Cristiano Ronaldo al Real Madrid, racconta di quando CR7 si fermava fino alle tre del mattino nella struttura di allenamento per i suoi noti bagni ghiacciati, “nonostante a casa lo aspettasse Irina”. Irina è Irina Shayk, ai tempi fidanzata del calciatore, e il suo mister indicava quindi come signficativo che il portoghese preferisse stare in una vasca con del ghiaccio invece che al caldo, in compagnia di tanta bellezza. Lo stesso Ancelotti aggiungeva “che a Cristiano non interessano i soldi, a lui interessa solo essere il numero uno”.
James Hillman ne Il codice dell’anima racconta del demone (o compagno segreto, o angelo custode) che tutti quanti ci troviamo in dote, e che dovrebbe aiutarci a guidare la nostra esistenza terrena. Riconoscerlo è appunto il riuscire a decifrare il codice dell’anima. Alcuni ci riescono, altri no. Alcuni ne traggono forza, altri restano dell’inconsapevolezza.
Uno è il finale che si può dare a una storia. Del romanzo Addio alle armi di Ernest Hemingway sarebbe potuto essere “Questa è tutta la storia. Catherine è morta e tu morirai e io morirò ed è tutto quel che posso prometterti”. Ne provò quarantasette, poi ne scelse uno meno disturbante. Guardiamo un uomo che riscrive quarantasette volte le righe finali di un suo romanzo, allena la sua bravura, sfinisce il proprio talento. Il perfezionismo diventa ossessione, e alla maniera di una cometa brucia e impazzisce e risplende di più. Un regalo che ci sbatte addosso, possiamo restare incantati, ricordare, girarci un documentario.