Rivista La città dei lettori

Duecentodiciannove volte

By 23 Ottobre 2024 No Comments

Duecentodiciannove volte

Luca Starita

«Ma quanto è bello mio nipote». Te l’ho ripetuto non so quante volte e ancora il momento in cui questa frase ha cambiato di significato si nasconde, nonostante cerchi in continuazione di trovarlo. Sarebbe più semplice individuare l’attimo dell’innesco della mia ossessione, che mi secca la gola e mi fa scendere gocce di sudore per tutto il braccio, ogni volta che ti vedo. Dal “bello” che significa affetto, premura, attenzione, al “bello” che è invece vizio e sete.

Tua madre non ti voleva, voleva abortire, e anche se eri ancora invisibile ma esistente, sapevo che non potevo lasciarglielo fare. L’ho convinta con le parole della rassicurazione che si trasformavano in appoggio, in motivazione, in presenza. L’ho convinta, quindi, assicurandole che ci sarei stata io con lei, che l’avrei aiutata io a crescerti e farti diventare un uomo che tutti avrebbero stimato e desiderato. Tuo padre non c’era, ma non è lui il protagonista di questa storia.

Quando ti ho toccato la prima volta mi sono chiusa in bagno e seduta sul coperchio del gabinetto mi sono tirata un pugno sull’occhio da sola. Dormivi nella tua stanza di casa mia, quella che avevo sistemato per farti rimanere a dormire quando tua mamma era troppo stanca per starti dietro e tu non ti sei accorto di niente, non ti sei mai accorto di niente, ma quando crescerai il ricordo delle mie mani e della mia bocca ti perseguiterà, ti entrerà frammentato nel cervello e inizierai a farti domande su che cosa realmente è successo, cercherai di comprendere i tuoi problemi, sessuali, forse, o sociali, più probabile, e ti verranno in mente le volte in cui ti ho messo una mano sulla bocca e ho stretto le tue gambe, i tuoi testicoli, il tuo pene. Quello che adesso ti sembra un gioco, divertente, piacevole, mi hai detto qualche volta, tra qualche anno si trasformerà in esorcismo e io ti aspetterò, risponderò a ogni tua domanda. Non ti mentirò, ti devo questo, almeno.

 

 

Quando sono uscita dal bagno quella prima notte l’occhio era gonfio e pulsava senza ancora manifestare tutta la putredine. Non ho pianto però, ho messo un po’ di ghiaccio sul dolore e ho guardato un episodio di How I met your mother bevendo latte di mandorla, che a me fa schifo ma è il tuo preferito, era? O lo è ancora? Dopo tre anni che tu per me significhi soltanto una cosa tutto il resto che ti riguarda non lo so più. Non so più che cosa ti piace a scuola, non so più che sport fai, mi sembra che calcio tu l’abbia abbandonato, non so più se ti piace leggere o giocare ai videogiochi, o entrambi, non so più quali sono i tuoi amici né i tuoi nemici. Per me sei diventato il buio della mia casa, la porta di fianco alla mia camera che apro nel mezzo della notte, dopo due passi in avanti e la testa che scuoto tornando indietro e indugiando, col rumore del sonno che tutto intorno mi convince che no, non è poi così grave. Non sei più un essere umano che vive di per sé, io ti ho voluto, io ti ho fatto nascere, io ho permesso che mia sorella non ti uccidesse, e tu adesso sei qui a tormentarmi. A volte mi convinco che esista qualche virus, non c’è altra spiegazione, un virus maligno, un cancro che si impossessa del bene delle persone e lo trasforma nel desiderio pulsante di distruggere qualcosa di bello e di innocente.

 

 

Quella prima notte sono entrata in camera tua per chiudere le persiane, nonostante te lo ripetessi ogni sera non le avevi fissate e con il vento una continuava a sbattere, erano le tre meno dieci. Ho aperto la finestra e ho cercato di fare piano, nonostante il vetro che vibrava non ti sei svegliato. Il fascio di luce ti illuminava la faccia e io ho sorriso vedendo quanto eri diventato grande. Il giorno in cui sei nato ero con tua mamma in sala parto e tu non volevi proprio saperne di uscire. Dodici ore siamo state ad aspettarti e anche in sala parto, nonostante tua madre continuasse a spingere e impegnarsi per metterti al mondo, ti presentavi soltanto con un pezzo di spalla. Ma poi sei arrivato e non smettevamo di piangere. Io piangevo perché sapevo già che mi avresti cambiato la vita, soltanto non immaginavo mi avresti portato alla porta d’entrata di una bolgia e mi ci avresti scaraventato dentro con un calcio in mezzo alle gambe.

 

 

«Com’è bello mio nipote», ti ho sussurrato nell’orecchio accarezzandoti la faccia, e ho notato un movimento, impercettibile a cose normali, ma nitido con il fascio di luce del corridoio che ti illuminava. Così l’ho ripetuto, sempre sottovoce e mettendomi a sedere sul lato esterno del letto, quello che non appoggiava alla parete, «com’è bello mio nipote» e di nuovo, il movimento della tua erezione così innocua, così innaturale perché in fondo eri così piccolo, mi ha seccato la gola. Senza pensarci ho alzato le lenzuola e ho visto che dormivi in mutande, la canottiera stava in fondo al letto lanciata in un impeto di calura. Blu, con gli aeroplanini, bianchi, tesi proprio in mezzo alle gambe senza peli, senza cicatrici o smagliature, come quelle dei grandi. Il braccio destro sotto la guancia, con la bocca semiaperta da cui usciva un rivolo di saliva. Il petto, senza segni di muscoli allenati o sviluppati, che si alzava e si abbassava, così piccolo come il battito di un cuore calmo. Tu continuavi a dormire e non ti sei reso conto di nulla quando ti ho abbassato le mutande e ho iniziato a muovere veloce la mano. Sapevo molto bene quello che stavo facendo e in quel momento non c’era nient’altro che volessi. Volevo stare lì, seduta con le gambe sulla sponda del letto e con la mano sinistra che ti toccava. Hai fatto un piccolo gemito con la bocca e il tuo pene ha pulsato tre o quattro volte come se stessi eiaculando ma non è uscito niente, era troppo presto, era tutto troppo presto. Ti ho tirato su di nuovo le mutande, ti ho rimboccato le lenzuola e, baciandoti sulla fronte, ti ho accarezzato, lasciandoti ai tuoi sogni.

 

 

Il giorno dopo ti sei alzato come sempre e in quella familiarità ho capito che avrei avuto scampo. Così non ho più avuto dubbi né incertezze quando qualche sera successiva l’ho rifatto, guardandoti tra gli animali di peluche e le mutande con l’elastico colorato che ti ho abbassato sulle gambe e ti ho tirato su quando quel pulsare ti aveva affievolito. Non ho provato esitazione nemmeno quando giorni dopo mi sono avvicinata con la faccia e te l’ho baciato, così strano nella mia bocca, così poco convinto come quello degli uomini che ogni tanto mi ritrovavo a cercare per dare al mio piacere una consistenza più legale, meno animale, più adulta. E ho provato anche una certa soddisfazione quando ti ho convinto, da sveglio, poco prima che spegnessi la luce per dormire, a mettere il tuo indice tra le mie gambe, e anche quando, nel buio, ti sei svegliato con me sopra e hai cercato di staccarti, ma ti ho bloccato con le mani finché non hai avuto così tanta paura che sei diventato morbido e spaventato. Ti ho abbracciato, quella volta, e ti sei addormentato di nuovo subito.

In tre anni ti ho preso duecentodiciotto volte.

Ho vissuto me stessa nel buio della tua stanza.

Sono morta ogni giorno alla luce del giorno, aspettando ancora che arrivi da te la sentenza della mia condanna.

 

 

«Marina, ma che hai fatto?» mi ha chiesto tua mamma vedendo l’occhio tumefatto. «Eh, sono entrata nel bagno senza accendere la luce e ho sbattuto contro l’anta del mobile che tuo figlio ha lasciato aperta, mi ucciderà un giorno o l’altro».

E io lo spero che mi uccidi. Perché non provo colpa, nipote mio, non ci posso fare niente, perché dentro so che io e te siamo stati creati per stare insieme in questo modo. Vivo le giornate pensando che crescendo, quando ti renderai conto che le ragazze o i ragazzi di cui ti innamorerai non saranno come me, accetterai che dobbiamo stare insieme, con i polsi legati, il mio col tuo, e continuare a vivere nel buio. L’unica cosa che mi chiedo: quando mi girerò e taglierò il mondo?

Quando disobbedirò a me stessa?

E nel frattempo io ti aspetto, stasera, per la duecentodiciannovesima volta.

Luca Starita

Di sangue napoletano, di crescita senese, di maturità fiorentina, si laurea a Bologna in Italianistica. Per questo suo spostarsi continuo le radici, i sogni, la definizione sono temi fondanti della sua scrittura. È autore del romanzo La tesi dell’ippocampo, pubblicato nel 2019, e di alcune drammaturgie teatrali. Collabora, inoltre, con la rivista «Cultweek». Per Effequ Edizioni ha pubblicato Canone ambiguo. Della letteratura queer italiana (2021) e Pensiero stupendo (2023).

Lettura consigliata
Triste tigre
Neige Sinno
Doveva avere sette anni, forse nove, non lo ricorda con esattezza Neige quando il suo patrigno ha cominciato ad abusare di lei. A parte il momento esatto in cui tutto ha avuto inizio (il trauma ha alterato per sempre la cronologia dei fatti), i ricordi sono perfettamente incisi nella mente e nel corpo della donna che Neige è diventata. La decisione a diciannove anni di rompere il silenzio, la denuncia, il processo pubblico, il carcere per lo stupratore, la vita nuova molto lontano dalla Francia. E quella donna si è interrogata a lungo se scrivere il libro che stringete tra le mani, perché trovava solo motivi per non farlo. Fino al giorno in cui il passato l’ha raggiunta e l’impossibilità di scrivere è diventata impossibilità di non scrivere. Questa che leggerete non è «soltanto» la storia di una bambina che è stata violentata per anni da un adulto; è la ricerca pervicace degli strumenti per dire di quell’altro luogo, il paese delle tenebre dove vivono tutti quelli come Neige; è il rifiuto netto della retorica delle vittime (nessuna resilienza, nessun oblio, nessun perdono); è la necessità di trovare semplici parole precise che dichiarino l’irreparabilità del danno; è l’urgenza di rendere testimonianza, sì, ma collettiva. Perché l’abuso si consuma in una dimensione separata di omertà e solitudine, una dimensione che è fisicamente la stessa in cui si svolge il resto della vita, ma che si sovrappone come un doppio di intollerabile nitore. Triste tigre è il viaggio in questa dimensione, è il dialogo necessario con i grandi della letteratura che questa dimensione l’hanno interrogata, e che hanno fornito all’autrice gli strumenti per tutto questo. Un libro, che usa la scrittura come un martello, attraversato da una domanda: colui che ha creato l’agnello ha creato anche la tigre?