Che ci facevo con Scalise – trentacinque anni io, cinquantasette lui – in una camera d’albergo di Madrid, un tardo pomeriggio di ottobre del 1996, entrambi preda di una risata isterica che non finiva più? Nella vita ci occupavamo di amministrazione, Scalise ed io, per conto di un’azienda del settore edile: un lavoro che, solitamente, non suscita risate isteriche.
Ci trovavamo a Madrid perché il figlio di uno dei soci aveva messo su un business legato ai prodotti per la sicurezza sui cantieri. Un giorno aveva comunicato di essere sul punto di firmare un contratto con un’azienda spagnola leader nel campo degli articoli per la sicurezza personale. No, non era andato a Madrid, era venuto il loro rappresentante, italiano, a illustrargli i vari tipi di microcamere, cimici e altri marchingegni del genere, poteva bastare.
Fu invece deciso che non bastava. Scalise ed io, prima della firma del contratto, dovevamo volare a Madrid. Il gruppo per cui lavoravamo non aveva mai avuto a che fare con l’estero, fidarsi soltanto delle capacità imprenditoriali del figlio di uno dei soci era troppo rischioso. All’arrivo avremmo trovato ad aspettarci il rappresentante italiano.
Senza cravatta, lieve accento romano, i capelli un po’ trascurati, il rappresentante si presentò sfoggiando una disinvoltura sottotraccia, come se – a differenza di tutti i rappresentanti che avevo conosciuto in vita mia – non avesse bisogno di impressionare i suoi potenziali clienti. In taxi parlò pochissimo, solo qualche domanda sui motivi che ci avevano portato fin lì. Scalise ed io restammo sul vago. Ci lasciò davanti all’albergo, dandoci appuntamento per il pomeriggio direttamente in azienda.
Quando, uscendo dall’ascensore di uno dei grattacieli della city madrilena, ci ritrovammo nel salone di accoglienza, pensai che avessimo sbagliato piano. Al muro era appesa la gigantografia a colori di un carrarmato in azione su un terreno stepposo. Poggiati su varie mensole di cristallo, sistemi di puntamento per diversi tipi di armi, dalle carabine ai bazooka, si alternavano a pistole e a qualche fucile più o meno leggero. Non avemmo tempo di commentare, venimmo subito introdotti in una sala riunioni, dove due funzionari giovanissimi e azzimatissimi ci fecero accomodare a un lungo tavolo rettangolare e, con cortese sollecitudine, cominciarono a porci domande (il rappresentante traduceva). Per quale motivo avevamo deciso di entrare in quel settore? Oltre a microcamere e cimici, eravamo interessati agli altri prodotti che costituivano il loro core business? Avevamo contatti con potenziali clienti italiani utilizzatori di armi?
Evidentemente le nostre risposte negative e sempre più imbarazzate non soddisfacevano i due funzionari che, forse come ultimo test, ci proposero un tour delle sale espositive: Scalise ed io transitammo tra decine di prodotti (alcuni anche molto grandi) per la sicurezza propria, e l’insicurezza altrui, con l’incedere di due sonnambuli.
Una volta fuori, il rappresentante cominciò a parlare rapidamente, come si fosse accorto che doveva sparare le sue ultime cartucce (cos’altro?) prima di salutarci e rischiare di non vederci più, sia noi due che il figlio del socio, e a un certo punto disse che lui aveva “contatti diretti col Cesis”. Notai che Scalise non sussultò come invece avevo sussultato io.
Appena rientrati in camera, ci guardammo.
«Il carrarmato» dissi.
«Il bazooka» disse Scalise.
«I sistemi di puntamento.»
«Tutte quelle domande.»
«Il Cesis.»
Scalise fece un’espressione interrogativa.
«Il rappresentante ha detto di avere contatti col Cesis» spiegai. «Lo sai cos’è il Cesis?»
Scalise scosse la testa.
«Il Cesis è il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza» dissi. Scalise continuava a non capire. «In pratica è l’organo di coordinamento dei servizi segreti italiani.»
Scalise strabuzzò gli occhi, mancò poco gli cadessero gli occhiali.
«Magari in questo momento siamo spiati» feci in tempo a dire abbassando la voce, mentre quella situazione mi appariva di secondo in secondo più esilarante, «staranno ascoltando ogni nostra parola.»
Dopodiché scoppiamo in quella risata isterica, da ragazzini di trentacinque e cinquantasette anni, e per un bel pezzo – mentre il tramonto madrileno ci bagnava degli ultimi raggi di un rosso sole ottobrino – non riuscimmo a smettere.
Javier Marías è un autore profondamente madrileno. È un narratore ossessionato dal segreto, dagli effetti che il segreto, i segreti, possono avere sulle nostre vite. In alcune delle sue opere vi è addirittura una figura, non dissimile da lui, che frequenta il mondo dei servizi. Per esempio nella trilogia Il tuo volto domani.
Quel pomeriggio di trent’anni fa a Madrid, senza ancora sapere chi fosse Javier Marías, mi sentii un po’ un personaggio di quel suo romanzo, e la cosa, sorprendentemente, non mi dispiacque. Forse allora non è un caso se Il tuo volto domani, pur con tutta la sua verbosità, mi appare il miglior libro di questo grande scrittore delle ombre.