Ogni pomeriggio, verso le cinque, passava davanti alla mia finestra una signora col passeggino. Dentro al passeggino, suo figlio. Dietro la signora, un labrador dal pelo chiaro.
La donna aveva un portamento dimesso. Il cane scodinzolava, contento di chiudere la fila.
A quel tempo vivevo a Berlino, in un grande blocco abitativo costruito durante la DDR.
Avevo una stanza con un divano verde, una libreria e due finestre che davano sulla strada.
La mia coinquilina scriveva guide per la Lonely Planet e, quando non era in viaggio, era in ufficio o nella piscina Prinzenbad sulla Prinzenstraße.
Una sera a settimana, pagava per farsi carezzare e abbracciare in “Kuschelpartys”, in feste per le coccole. Versava una modesta cifra per essere toccata da sconosciuti, sotto la direzione di un trainer.
Il mattino successivo alle sue feste per le coccole, mi aspettava in cucina ridacchiando, con gli occhiali appannati da una tazza di tè fumante. Arrivavo con un pigiama da uomo – ho sempre preferito i pigiami da uomo alle camicie da notte – e lei mi faceva il resoconto dettagliato dei suoi incontri nella semioscurità.
Solo una volta decise di prolungare uno di quegli incontri a casa nostra.
Me ne accorsi il giorno dopo, entrando in cucina, col mio solito pigiama da uomo.
Aprii la porta e trovai Kathrin, la mia coinquilina, insieme a uno sconosciuto dall’aspetto bonario. Sembrava un parroco di campagna.
Cercai di essere cordiale.
In realtà mi sentivo a disagio come una madre che scopre un tizio – mai visto prima – in camera di sua figlia adolescente.
Kathrin aveva il volto disteso.
Dopo quelle feste diventava più bella. Più morbida.
Sapevo quando sarebbe andata a un “Kuschelparty” perché indossava qualcosa di diverso dalle sue felpe di pile e dai suoi jeans scampanati. Spuntavano camicie, gilet, pantaloni di velluto a coste.
Per alcuni mesi, vissi nella convinzione che il nostro quartiere fosse popolato da persone in cerca di affetto.
A fare compagnia a Kathrin, c’era il proprietario del negozio “Copyinsel”, una copisteria a due passi da casa.
Finivo spesso al “Copyinsel” perché non avevo una stampante e stavo scrivendo la mia tesi di laurea.
«Salve.»
«Salve.»
«Una copia in bianco e nero di questo file, grazie.»
«Ecco le sue stampe e la sua chiavetta.»
«Grazie mille.»
«Aspetti signorina, le faccio vedere una cosa.»
A questo punto, mi chiedeva di fare il giro del bancone e andargli vicino.
La cosa che voleva mostrarmi, era l’immagine di una ragazza sullo schermo del computer.
«È bella, vero?»
«Sì, è bella. La conosce?»
«No.»
Le ragazze variavano, di volta in volta.
Al momento di pagare, già sapevo che mi sarebbe toccato fare il giro del bancone e andare vicino al proprietario del “Copyinsel”.
Le ipotesi erano due: o mi aveva preso per un compare maschio cui affidare le sue fantasie o pensava di conquistarmi attraverso quelle immagini pescate dalla rete.
A quel tempo, scartai la seconda ipotesi e mi aggrappai a quella del compare maschio.
Mi piaceva fare colazione al “Cafè Olinda”.
Aveva ottimi pasteis de nata e bossa nova in sottofondo.
È lì che una volta scoppiai in lacrime – detesto piangere in pubblico – senza un motivo e senza riuscire a smettere. A consolarmi, arrivò un brasiliano alto due metri, in un abito femminile straripante di paillettes.
Sicuro di aver afferrato il motivo del mio sconforto, mi appoggiò una mano su una spalla e disse:
«Non preoccuparti. Anch’io ho pianto per amore».
No, non piangevo per amore.
La nevrosi del mio quartiere, la ricerca di affetto, mi aveva reso simile a una donna dal cuore spezzato.
Accettai comunque quel gesto premuroso.
Non scorderò mai la sua mano gigante dalle unghie laccate di nero.
Il suo tocco gentile.
Kathrin andava ai “Kuschelpartys”, il proprietario del negozio “Copyinsel” s’intratteneva con surrogati di donne reali, io piangevo al “Cafè Olinda” e Humphrey – il Jack Russel Terrier di una signora che aveva un negozio di oggetti per la casa – inseguiva mamme col passeggino. Amava i bambini e aspirava a una famiglia. Me lo disse, una volta, la sua proprietaria mentre riportava Humphrey in negozio, dopo un suo ennesimo tentativo di fuga.
Un giorno, forse, lo avrei visto dalla mia finestra, dietro alla signora dal portamento dimesso e accanto al labrador dal pelo chiaro.
L’unica che sembrava stare bene, avere il cuore a posto, era la scultura dell’artista Käthe Kollwitz, collocata nella piazza in cui visse con suo marito, il medico Karl Kollwitz.
Käthe Kollwitz era socialista. Morì nel 1945, nei pressi di Dresda, tre settimane prima della resa tedesca, nella seconda guerra mondiale.
I protagonisti delle sue opere sono i poveri, gli affamati, le vittime di guerra.
Ritraeva gli invisibili e i visibili come il politico Karl Liebknecht, cui dedicò una xilografia dopo il suo assassinio, avvenuto a Berlino nel 1919.
La poetessa polacca Wisława Szymborska, come Käthe Kollwitz, aveva un occhio allenato al macro e al micro.
Aveva un’inclinazione a spostarsi dal centro alla periferia, a esplorare le pieghe più nascoste della vita e della letteratura.
Alla letteratura ‘meno nobile’, meno recensita, dedicò una serie di considerazioni, raccolte nel libro Letture facoltative (Adelphi Edizioni). In questo volume, trovano voce e spazio: il tetranico, un piccolo ragno purpureo, gli uccelli da compagnia, le vittime collaterali degli attentati…
I libri su cui scrisse, riportano titoli come: Relax. 101 consigli pratici, Le sigarette sono sublimi, L’enigma di Neanderthal, Storia del Vicino Oriente nell’antichità.
Si tratta di manuali, almanacchi, testi di divulgazione scientifica.
Il compito della letteratura, ammesso che ne abbia uno, è quello di mantenere uno sguardo vigile, capace di posarsi su un castello medioevale e su un negozio per alimenti, su una celebrità dell’Opera e su un insetto, e di coniugarli, magari, all’occorrenza:
“Se Pavarotti mi colpisce un poco di più è solo perché in frac sembra un grosso coleottero nero. E io sono particolarmente sensibile al fascino dei coleotteri.”