Slontanato, straniato, viscerale: solo questo. Cerco una cosa che ho scritto anni fa che mi è rimasta in testa. Credo di trovarci dentro la chiave per quello che sto scrivendo ora: salvo, invece, alla fine, solo tre aggettivi, quelli che aprono questo pezzo, ma non so neanche se siano quelli giusti («Ché la letteratura – sempre incerti se scriverla maiuscola o minuscola, questa parola: mentre si decide di lasciarla nel luogo comune del suo nome; se è letteratura la maiuscola se la prenderà, in seguito, da sé – vale (ora come in qualsiasi altro periodo) perché fatta di aggettivi; e da aggettivi»).
Mi avvicino ai giorni di festa col solito timore che li accompagna da quando sono diventata adulta («Sto pensando che i miei disastri sentimentali capitano durante le feste comandate. Le ferie d’agosto. Tra Natale, Capodanno e l’Epifania; più o meno»). Mi frugo in tasca e cerco l’unica cosa che mi pare – sempre – di riuscire a controllare: le parole. Tra l’abisso delimitato dai due poli opposti dell’accumulo e della sottrazione, del caos magmatico e della disciplina nitida («chi parla si trova immediatamente tra le spire sfuggenti – un immaginario a metà strada tra il Laocoonte winckelmanniano e la villain di Men in Black II – di un’istintiva attrazione pulsante per le moltiplicazioni gaddiane epperò, al tempo stesso, da sempre preda di una fascinazione cristallina, luminosa, per la scrittura ipnoticamente siderale di Primo Levi»), mi tuffo nelle mie tasche diventate improvvisamente profondissime, tanto quanto una vita, tanto la vita che ho lasciato alle spalle e quella che ancora non ho vissuto: è un abisso con le pareti di curiosità, tappezzato di fiori che scorgo solo come insieme di colori, non sapendo più se li guardo da un cavallo in corsa o se in questo pozzo – che non fa male – mi ci son buttata in cerca di un’esperienza adrenalinica, col bungee jumping.
I fiori, in realtà, non sono fiori e se fossero Fiori sarebbero blu: c’è l’artista che fa come gli pare, e tira di punta; c’è la Terrazza di Ettore Scola dalla quale non sono mai scesa; c’è filatesse che non è una parola, ma un mondo in cui credo di non camminare più e, invece, ogni volta mi ritrovo («E ora che sono passati gli anni, da quella domanda adolescenziale e eterna, ci viene la voglia e l’obbligo di essere precisi, nella risposta. Nel dire che la metempsicosi è la ‘trasmigrazione delle anime’; e precisare che in un modo laico, e stordito, e fragile, e decisamente umano, tutte le anime delle scritture di Vincenzo Cerami sono trasmigrate in un modo o nell’altro – che è sempre questione di stile – nella letteratura italiana di questi anni; in tutte e tutti quelli che da lui hanno imparato una concezione e un metodo nuovi in grado di contrastare il demone ghiaccio e rumoroso della pagina bianca», p. 154).
Fuggo dai maestri che tanto resteranno dentro nell’unica forma possibile, quella dei fantasmi: trapassati, ma perennemente presenze nei nostri vocabolari; vorrei uscire dall’anima che anni fa ho abitato, ma tanto è lei che ha abitato e abiterà sempre me («Senza la lingua dei Promessi sposi – senza la forma – il romanzo, lo ricordiamo sempre, si scarnificherebbe nella sua ossatura primaria, nel suo archetipo nascosto e segreto. L’isso, essa e ʼo malamente della sceneggiata napoletana», p. 127).
Lo sapevo che sarebbe successo, ma neanche l’ho evitato perché tanto, nella vita, alla fine, ho sempre fatto quello che ero e penso che ci proverò sempre, perché è l’unica forma che riesco ad assumere.
Sbuffo, guardando un cane che passa davanti al bar che ho lasciato da poco.
Nei giorni in cui nessuno ti legge, riesce a leggerti solo la parola scritta esatta editata cartacea di qualcun altro che tu leggi («Io vivo per iscritto. Mi spiego. Io vedo le parole solo per iscritto»), scivolo sorridendo («Che non mi avrebbe mai chiesto “ma fa ridere?” e che però anche lui, come me, sapeva e sa benissimo che è quello che speriamo entrambi: che qualcuno che non conosciamo sorrida con noi, dove serve, di quello che stai leggendo»): obliqua, sghemba, diagonale, avanzo solitaria, con le cuffie, così nessuno mi disturba. Non penso a niente, mentre Roma mi corre sotto i piedi, ancora una volta, ma neanche provo a far capire a chi non vivrà forse mai per iscritto, come me, che scappando ci siamo ritrovati in un posto preciso: Bringin’it All Back Home. Ma non lo dico, lo scrivo, però.
Addento un tramezzino tonno e carciofini (i carciofini non sono quelli di compensato di certi tramezzini tonno e carciofini), scappo dalle questioni inutili, vado in villeggiatura nella comfort zone e saluto le vecchie consuetudini: resto in piedi su equilibri precari, rincorro l’aderenza a quello che penso che da sempre cerco e perseguo e abito in ogni cosa che faccio e si chiama come me. Cammino sul ponte che esiste in un impero che è solo di segni, faccio un passo verso l’altro che fa altrettanto come me. Mi chiama e io – grazie ad io – l’ho ascoltato un numero sufficiente di volte.
«Perché la letteratura (l’arte in genere: se è arte, se è letteratura; ora e in qualsiasi altro periodo) sconfigge le dittature e i pensieri unici con la sola sua presenza, accogliendo in sé lo spazio eterno e i tempi (eterni) del presente. Che in italiano ha anche per l’appunto, la doppia accezione di tempo verbale; e il significato di essere, presente: ‘farsi trovare attento, e pronto, a ogni chiamata necessaria’. Senza con questo scomodare nessuna fede e nessun altro dovere che non sia, principalmente di natura estetica.
Del resto: «io sono» non è la frase più difficile di tutte le filosofie? E volendo – consapevolmente – forzare i confini spaziali del discorso in tempi brevi.
Anche la religione e la filosofia – di là dal loro richiamo specialistico – non sono forse loro stesse tutta la letteratura? I sogni di verità e di bellezza che gli uomini a vario grado si raccontano dacché si sono resi conto di essere vivi».
Il rischio, ripensando agli aggettivi dai quali ero partita e che mi hanno portato precisamente fuori strada, era quello pericolosissimo di scrivere un pezzo che farà pensare che io Acchiappafantasmi non l’abbia letto: è forse così? Guardo e sento il rumore ferroso dei tram, dalla finestra di questa casa bianca e parquet, in una luminosa giornata primaverile, mentre un pezzo di Roma nord corre sotto questo davanzale indossando stagioni diverse (quei giorni tra sandali e stivali, tra canotta e cappotti). Non l’ho letto, dunque? È quello che capita quando con stupore, silenziosi, attenti, umilissimi, capiamo che un libro s’è fatto casa, fantasma, demone e riparo, ci ha accolto e insieme indagato e ci ha lasciato per un po’ l’impressione, chiusa l’ultima pagina, che noi, no, non l’abbiamo letto, ma vissuto (esattamente come, e ovviamente in un modo totalmente diverso da quel tipo ectoplasmatico, il cosostrano, che risponde al nome di Giordano [Meacci] e che l’ha scritto – e vissuto – in un modo unico, privato, solo e solamente suo e di tutti quelli che è stato finora e sarà).
L’ultimo morso del tramezzino, poi getto via la carta, riprendo tutte le parole che tentavano di fuggirmi dalla testa: mi aiutano i corsivi; la punteggiatura non banalizzata; le virgolette basse senza le quali non potrei vivere. Mi butto su Piazzale Flaminio, attraverso le solite strisce, con gente che va sempre di fretta e persone che si godono la bellezza accecati da un sole che non la fa neanche vedere. Sono a Piazza del Popolo e cerco nell’aria – ancora una volta – Luigi Magni, lo trovo, voltandomi a destra: saluto Targhini e Montanari. Sento una voce, un fantasma: «Di grandi ce ne stanno tanti, di Magni uno solo». Dai fantasmi non si scappa, e non ho nessuna voglia di farlo, apro WhatsApp e scrivo a un amico: – Hai letto Acchiappafantasmi, di Meacci? Se no, fallo.