Come a volte capita, alcuni incontri con libri inaspettati sono motori di riflessioni che portano lontano. È il caso di La donna di Willesden di Zadie Smith (Mondadori, nella ottima traduzione di Dario Diofebi). Questo testo è una riscrittura in inglese moderno di La donna di Bath, la novella più nota e letta delle ventiquattro che compongono I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucher, un testo del quattordicesimo secolo che in Inghilterra è studiato e venerato come da noi Boccaccio.
La novella, o meglio il poema, essendo scritto per lo più in versi, racconta la vita di Alyson, una donna “spavalda, sincera, insolente, audace, orgogliosamente scandalosa”, che in un’epoca in cui le donne erano definite principalmente per il loro status maritale, si vanta di aver sposato e seppellito ben cinque mariti, rivendica il diritto al piacere sessuale anche per le donne, è sboccata, parla apertamente di sesso senza remore e assolutamente senza vergogna. Un testo incredibilmente audace e sconcio (infatti nelle scuole si fa leggere una versione emendata e spurgata dai riferimenti più spinti agli organi genitali e alle loro funzionalità), incredibilmente femminista, al punto che a leggerlo oggi ci si chiede come sia possibile che sia stato scritto più di seicento anni fa.
Nel Medioevo le donne troppo libere, o che ostentavano ricchezze proprie, o avevano conoscenze scientifiche (maneggiavano erbe medicinali, praticavano aborti, conoscevano il corpo umano e quello femminile) spesso vedove o non sposate destavano sospetto e finivano male: secondo le stime degli storici tra il 1400 e il 1750 furono processate per stregoneria tra le ottantamila e le centomila persone. Le streghe finivano sul rogo, come si sa, e questa è stata una pratica con cui il sistema patriarcale puniva le donne che rifiutavano o comunque si sottraevano al ruolo sottoposto di ancelle domestiche, di mogli e madri.
In questo scenario Alyson di Bath è una felice e strabiliante anomalia. Una vera donna libera, sicuramente più libera di molte eroine dei romanzi ottocenteschi e del secolo scorso, ma anche di molta letteratura contemporanea che normalmente giudichiamo nuova, radicale e di rottura. Alyson di Bath diventa – nel testo di Zadie Smith – Alvita di Willesden, sobborgo multietnico nel quartiere di Brent, zona nord ovest di Londra, dove la scrittrice di origine giamaicana ha ambientato gran parte della sua opera.
Doveva essere un monologo per celebrare la vittoria del quartiere di Brent al concorso per la nomina a Municipio della Cultura della città di Londra per l’anno 2020, da pubblicare su una rivista locale. È diventato uno spettacolo teatrale, rappresentato con successo e ottime recensioni al Kiln Theatre, un teatro storico e vivacissimo della zona, dove approdano le migliori e più innovative produzioni della capitale inglese.
Alyson di Bath è una delle due voci femminili dei 24 racconti di Canterbury (l’altra è la Prioressa) e racconta la sua vita al pubblico di pellegrini in una locanda, la Tabarn Inn. Alvita di Willesden si esibisce in un pub, il Sir Colin Campbell di Kilburn, di fronte al pubblico multietnico del quartiere: giovani, vecchi, gente di ogni tipo, bianchi, neri, scuri e meno scuri, commercianti, studenti, donne, alcuni vestiti con gli abiti tipici dei loro paesi d’origine. Alvita è appariscente, si veste per stupire, indossa un vestito rosso aderente che non lascia nulla all’immaginazione, un cappello zulu (anche se non è zulu), perché non le interessa il giudizio degli altri, i suoi gioielli sono collane di oro finto, indossa un intimo rosso come le suole delle sue Jimmy Choo (finte anche loro), e parla liberamente di tutto quello che ha fatto nella sua vita, delle sue esperienze sessuali, dei suoi numerosi viaggi.
Alvita dice cose che ancora oggi scandalizzano i benpensanti. E infatti alcuni spettatori (in particolare uomini e di una certa età) durante la rappresentazione teatrale si sono alzati e se ne sono andati. Alvita non rivendica spazi o quote e non enuncia teorie, lei ammette liberamente il suo desiderio di dominare gli uomini e spiattella di fronte a tutti la sua voglia di vivere come le pare e la sua fame di sesso. Alvita denuncia la misoginia, la violenza sessuale, le disuguaglianze, i privilegi di classe e la corruzione di un sistema di cui si fa beffe.
Ecco, leggendo questo testo riscritto fedelmente su un originale di seicento anni fa, viene da chiedersi cosa ce ne facciamo oggi di questa grande libertà che abbiamo a parole. E che ha ragione da vendere Zadie Smith quando dice che durante il lavoro di traduzione e riscrittura dall’inglese medievale si è sentita più vicina alla donna di Bath (e quindi alla sua Alvita) che a molte donne contemporanee che si credono libere perché sculettano sui social come Kim Kardashian.