A volte Firenze, cinquant’anni fa, all’epoca del traffico automobilistico in centro e dell’anidride solforosa che sbriciolava i nasi di Cosimo de’ Medici sulle facciate dei palazzi, obbligava i ragazzi appiedati, a cui la famiglia aveva negato il motorino, a percorrere strade non consuete, per evitare il caos. Maciste lo conobbi sulla bancarella dei libri usati di piazza San Firenze, dove non avrei dovuto essere, all’una di un singolarmente fresco giorno di agosto. Non che lo vedessi, né sapessi che c’era. Veniva nominato solo alla pagina 15 del libro che mi attirava, leggermente decomposto, ma ancora con la lucida sovraccoperta sopra la copertina rigida, con una immagine post-impressionista e un titolo che evocava qualcosa di vagamente sessuale, di pruriginoso.
Solo il secondo sguardo alla copertina aveva cancellato quella ormonale prima impressione clamorosamente errata. L’autore, scritto molto in grande, lo conoscevo, benché solo di fama. Non era nei programmi scolastici: nel 1975 ci si fermava agli scrittori di fine Ottocento. Un mese prima avevo fatto l’azzardo di portare alla maturità una tesina sul romanzo italiano contemporaneo e una sul Giardino di Bassani – che non è l’oggetto di questo ricordo, premetto, ma solo un inciso – analizzato quasi pagina per pagina, ed entrambi erano stati rifiutati dalla commissione d’esame. Mi dissero, senza un filo d’imbarazzo, che non erano tenuti a conoscere l’autore.
Il libro con la sovraccoperta lucida sotto braccio, e con dentro Maciste, era per me un mistero. Ancora non lo sapevo, ma un minuto dopo averlo acquistato, mi trovavo proprio sui luoghi del romanzo. Percorrevo semplicemente la strada per tornare a casa, cercando di scansare il traffico disordinato di via de’ Neri, passando accanto ai negozi: fruttivendoli, coltellerie, elettricisti, civaioli, un vinaio ancora ignaro di un remoto e incredibile futuro. E invece facevo una passeggiata letteraria ante litteram, pensando ad altro.
Lessi il romanzo in due giorni. Una domenica deserta (sì era d’agosto, ho detto) discesi per via de’ Neri e infilai via del Corno, perché avevo scoperto sullo stradario della SIP che il cuore topografico del romanzo era proprio quella specie di vicolo polveroso e mai battuto, nemmeno nel 1975, da fiorentini e turisti. Alzando gli occhi agli antichi muri, ai piani alti dei palazzi «caldissimi d’estate, umidi e gelidi d’inverno», gli occhi si imbatterono in un’insegna sopra il grande portone sulla destra, poco dopo l’inizio della strada. Era stata coperta da carta da pacchi fermata con la carta gommata. Era evidente che l’esercizio era chiuso per sempre. Un angolo della copertura precaria si era scollato e il vento lo alzava.
Sotto c’era scritto Albergo Cervia.
La rivelazione mi colpì allo stomaco. Dunque c’era davvero l’albergo Cervia, esisteva, almeno era esistito, quell’insegna seminascosta parlava chiaro. Tutto il libro, che ovviamente era Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini, mi appariva all’improvviso vero.
Maciste, il maniscalco, socialista, aveva davvero abitato in via del Corno. Allora anche il resto era reale: la Firenze delle Cure, l’onorevole liberale salvato dai comunisti, le squadracce che seminavano il terrore, nella notte di San Bartolomeo.
È chiaro che tutto questo non c’entra nulla, con la Letteratura. Che via del Corno esistesse, e la giovane prostituta col cuore matto avesse davvero abitato le stanze all’ultimo piano, non significava nulla. E nemmeno che il ciabattino, e il bieco Nesi carbonaio, fossero sulla sinistra, nell’androne di un riparatore di biciclette. Tutto questo non aveva alcuna importanza. Se non fosse stato così, se quelle cose fossero state inventate dall’autore, non sarebbe cambiato nulla, nella mia modestissima formazione letteraria fatta disordinatamente e senza criterio. Ma c’erano: e io ero stato investito da un treno di clamorosa consapevolezza.
Le Cronache di poveri amanti erano diventate le mie cronache, le lastre sotto i piedi erano le stesse (lo erano allora, nel 1975. Ora è tutto asfalto, almeno mi pare. Controllerò).
La Letteratura, la veridicità dei grandi romanzi, la si può scoprire e imparare anche così, per la via sbagliata. Ma è una via, insomma, e tutte le strade portano a Vasco Pratolini, che adesso mi guarda male, forse come in un bel libro di Valerio Aiolli.