Le vedevo agonizzare ogni giorno su piastrelle di granito.
Stavano in gruppo, quasi mai sole.
Avrei potuto accelerare la loro fine con un colpo deciso. Mi seccava, però, prendere la parte del boia. Inoltre, temevo quello che sarebbe schizzato fuori dai loro corpi.
La responsabile di tutto questo era Maria Teresa, la vicina del secondo piano.
Portava una collana di perle finte, golf beige e gonne al ginocchio.
Era vedova.
«Ho perso mio marito un anno fa» mi disse quando ci presentammo.
«Mi dispiace» le risposi cercando di gettare una rapida occhiata nella sua casa.
Il corridoio alle sue spalle era immerso in un buio fitto e immobile.
Aveva amiche che la chiamavano per invitarla a uscire e una figlia che viveva nel Maresme e veniva a trovarla nei fine settimana.
La sua postura era quella delle donne sopravvissute a una disgrazia o quella di certe bambine che, con le ginocchia ancora insanguinate, dicono: “non ci siamo fatte niente”.
Non la sentivo uscire né rientrare. I nostri scambi avvenivano sulla ringhiera, tra il suo pianerottolo e il mio, a cui Maria Teresa appendeva la biancheria che puntualmente mi sfuggiva dalle mani quando tendevo i panni: trine, pizzi, merletti.
Da quando avevo divorziato, frequentavo un uomo e una donna, separatamente.
Pol era un giornalista de «La Vanguardia», di cui non sapevo niente.
Durante i nostri incontri, parlavamo esclusivamente di libri e facevamo l’amore davanti a uno specchio.
Gli piaceva che io stessi sopra.
Chiudeva gli occhi e abbandonava la testa all’indietro.
Io lo prendevo furiosamente perché avevo fame.
Guardavo lo specchio di soppiatto e godevo come se l’immagine riflessa non mi appartenesse.
Mi sono sempre vergognata della mia fame d’amore, d’attenzione, di cibo.
Da piccola ero stata educata a mangiare prima di ogni invito a cena.
Il contegno, per i miei genitori, passava dal nascondere ogni appetito.
Con Pol potevo non nascondere niente.
Ci vedevamo rigorosamente in stanze d’albergo.
Solo a Marzia era accordato il permesso di venire a casa mia.
Aveva una pelle morbida e camice di seta in cui affondare le mani.
Mi chiedeva di passarle un olio di lavanda che preparavo d’estate mettendo a seccare i fiori e poi lasciandoli macerare, sotto il sole, in barattoli di vetro.
Marzia dirigeva un’azienda e arrivava da me stanca.
Dormiva.
L’amore veniva dopo.
Le trine, i pizzi e i merletti erano per lei.
Mi raccontava dei suoi problemi e io l’ascoltavo come ascoltavo i pazienti della clinica in cui ero stata assunta.
Passavo il tempo a leggere libri, ascoltare i pazienti e scopare.
Mi sembrava di non riuscire a fare altro.
La mia vita di prima in Italia, con mio marito, tornava a farmi visita ogni tanto.
Accadeva di notte.
Mi prendeva la pancia che iniziava a gorgogliare.
I miei ricordi parlavano il linguaggio di quei rantoli.
I ricordi di Maria Teresa parlavano, invece, il linguaggio di filo e spilli.
Aveva ricamato le iniziali dei nomi di tutti i suoi morti e poi le aveva incorniciate e appese alle pareti del soggiorno.
La sua casa era un alfabeto di perdite.
Quanto meno avevano un nome, le sue, e un posto.
L’angolo della memoria era segnato dalla presenza di un tombolo con fuselli in legno.
Della comunità di Maria Teresa, erano rimaste una manciata di amiche e la figlia.
Era una donna sola, come me.
Sola, suo malgrado.
Una notte la trovai sulle scale.
Ero scesa avvolta in un cappotto con sotto il pigiama.
Avevo bisogno di una boccata d’aria.
La mia pancia gorgogliava più del solito.
«È soltanto bicarbonato» disse quando mi vide, «bicarbonato misto a zucchero.»
A pochi centimetri dalle sue ciabatte di feltro, c’erano tre blatte, agonizzanti.
Maria Teresa le aveva avvelenate.
Del resto, avevano osato muoversi in gruppo sui gradini.
Non avevano capito che il nostro era un condominio di gente sola?
Guardai quella famiglia di insetti, a terra.
Rantolavano, come i miei ricordi, su piastrelle di granito.
“Se credevo di non pensare al passato, il passato pensava a me”, avevo letto nel libro Cose che non voglio sapere di Deborah Levy.
E il mio passato erano quelle blatte.
«Basta così, Maria Teresa» le risposi, «mi pare che abbiano sofferto abbastanza.»
Lei abbassò il capo e la osservai sparire tra le lettere del suo alfabeto di filo bianco.
Bianco come il bicarbonato e lo zucchero.