Gita a Capri

Benedetta Rossi Albini

Il sole giallo è già alto in cielo. Il traghetto la scarica con la sua folla di turisti sul molo. Ogni estate, Phoebe torna sull’isola per qualche settimana. La casa di Anacapri è ancora di proprietà di suo padre: è la vecchia dimora dei suoi avi, dove la Signora sua nonna passava le ore più calde, nascosta dai raggi impertinenti, ascoltando l’opera.

La villetta, circondata da palme e pini, è profumata di limoni. Phoebe è accolta dal guardiano che l’abbraccia come fosse una nipote. Sua moglie ha preparato un piatto di pomodori con basilico e olio. Ci sono anche degli spaghetti se vuole.

«Quanto appetito ha signorina?»

Phoebe dice che vanno bene i pomodori, il traghetto l’ha un po’ disturbata stavolta, il mare non era proprio calmissimo.

«Magari se mi fa avere del pane e del sale, grazie Mariano.»

 

 

Si va a riposare nella stanza al piano di sopra, nella camera dove è nata, con un doloroso parto che nessuno dimentica mai di commentare con varie atrocità.

Il letto ha lenzuola di lino ricamate a mano. Ma la terrazza di mattonelle celeste, col suo tetto di glicini e rampicanti, costruita da suo nonno come se fosse una barca con la prua verso il mare, la attrae. E allora lei si sdraia sul pavimento, senza asciugamano, con le spalle che assaporano il tepore, con la testa esposta al calore che scioglie i pensieri. Suda al sole, arrossandosi le guance. E con gli occhi chiusi, prova a immaginare quella casa nei tempi in cui fu felice, e abitata dalla famiglia di suo padre Carlo al completo: il nonno Giuseppe, intento a curare le zucche che si era ostinato a piantare sul terrazzamento che guarda verso est, sua nonna, bellissima e austera, con in mano una sigaretta sottile, mentre sistema con la domestica gli armadi di legno, pieni di abiti golosi come caramelle, uno per ogni sfumatura del tramonto. Carlo, suo padre, avventuroso e scapestrato, coi denti bianchissimi, le gambe muscolose e le tresche con le figlie di tutti i panettieri, pizzaioli, marinai dell’isola. Lo zio Mimmo, raffinato ma solitario. E il fratello più grande Vincenzo, col carattere schivo, e la passione per le carte da gioco.

Phoebe non conosce cosa sia una casa con una famiglia vera. Con tutti quei maschi che ronzano attorno ad una mamma regina.

Un tempo il suo era un regno così solido. Poi, le fondamenta iniziarono a sputare fuori qualcosa di marcio.

E il regno andò in malora.

La prima a smaterializzarsi fu l’abitazione dove era cresciuta. Tutto ebbe inizio con la morte della Signora nonna. Suo padre Carlo – inventatosi mercante d’arte –  prese a viaggiare sempre di più per certi suoi affari in Oriente.

Per non farla sentire sola le spediva cartoline e regali. Ma alla morte dell’Ingegnere, nonno di Phoebe, il patrimonio della famiglia paterna, una somma ragguardevole, passò, non senza qualche intrigo, nelle mani dei fratelli di Carlo, uomini pieni di vizi. Zio Mimmo frequentava dei giri pericolosi, fatti di corse ai cavalli, smerci sul porto e ragazzini con certi occhi svegli che mettevano i brividi. Quando Mimmo si avvicinava a certe stradine buie, ben vestito e col cappello a tesa larga calato sulla faccia elegante, questi ragazzini spuntavano come topi in cerca del formaggio. Nessuno voleva sapere cosa cercassero da quel bel signore che profumava di Vetiver e spendeva denari in scarpe lucide e pomate per capelli. Qualcuno disse che zio Mimmo aveva un’“inclinazione”. Vincenzo, il maggiore, giocava a carte e non sorrideva quasi mai. Nelle foto che Phoebe aveva avuto tra le mani, Vincenzo appariva sempre come un giovane torvo, con la superba attitudine ereditata dalla Signora, mischiata a qualche malattia dell’animo o del cuore, cuore che in lui sembrava inardito.

Fatto sta che il denaro iniziò presto a sparire. C’era chi diceva che ci fossero di mezzo altre famiglie, nate clandestine, e perciò da sfamare, o l’azzardo, o quell’affare sul porto andato male. E chissà cos’altro.

La casa di Napoli dove era cresciuta Phoebe, vicina a Villa Pignatelli, venne venduta dagli zii, che approfittarono della lontananza del fratello. Madre e figlia ricevettero una buona somma di denaro per andarsene a vivere in affitto, a due passi dal Conservatorio di San Pietro a Majella. Poi fu la volta della casa paterna, con le sue belle terrazze assolate. Solo la villa di Anacapri si salvò, perché Carlo intervenne liquidando i fratelli.

Dai resti di quella famiglia, Phoebe ha ereditato alcune cose: la pronuncia ad esempio – quell’elegante italiano con venature del Sud – il riserbo e un’irrequieta bellezza. Anche Napoli stessa l’ha contaminata nel profondo, con quel magnetismo bruciante, come se il mare non la bagnasse mai, col vulcano sempre alle spalle e le stradine dove si urlano oscenità per un nonnulla. Ogni volta che ci torna la città le appare calda, umida. Conturbante. Profonda, come una vagina. A volte pensa che avere Napoli nel sangue l’abbia resa immune ai drammi.

 

 

Ma fa troppo caldo adesso, e dentro casa di respira un’aria fresca di bucato e acqua al limone.

Benedetta Rossi Albini

Giornalista, livornese, vive e lavora a Firenze come creative consultant e come storyteller, scrive per importanti brand di lusso nel campo della moda e dell’hotellerie, produce servizi di interior ed è docente dello Ied Firenze. In passato ha vissuto vent’anni a Milano, dove ha lavorato nelle redazioni di «Vogue Italia», «Rolling Stone» e «Elle Italia» come redattore moda, musica e costume. Lettrice appassionata, ha un debole per i classici greci.

Lettura consigliata
Il mare non bagna Napoli
Anna Maria Ortese
«"Il mare non bagna Napoli" è una straordinaria discesa agli Inferi: nel regno della tenebra e delle ombre, dove appaiono le pallidissime figure dei morti. Di rado un artista moderno ha saputo rendere in modo così intenso la spettralità di tutte le cose, delle colline, del mare, delle case, dei semplici oggetti della vita quotidiana ... Anna Maria Ortese attraversa l’Ade posando sulle cose e le figure degli sguardi allucinati e dolcissimi: tremendi a forza di essere dolci; che colgono e uccidono per sempre il brulichio della vita. Nei racconti compresi nella prima parte del libro, questi sguardi penetrano nel cuore dei personaggi: ne rendono la musica e il tempo interiore, come molti anni prima aveva fatto Čechov». (Pietro Citati)