Ogni giorno, sbarcando direttamente dal ferry-boat, centinaia di persone sfiorano la città di Messina. Toccano la riva con le automobili, si rimettono subito in marcia mentre le vie cittadine sfilano leggere dal finestrino. Inspirano appena l’aria salmastra dello Stretto, lasciandosi sferzare il viso da questo vento che soffia senza posa, scomparendo all’orizzonte senza aver compreso l’anima sfuggente della città, crocevia d’epoche remote.
Noi invece, adesso, scegliamo un altro tempo.
Volgiamo le spalle alle direttrici verso il centro, rallentiamo il passo, ci mettiamo in cammino sulla strada litoranea che costeggia il mare, lasciandolo errare placido al nostro fianco; passiamo uno dopo l’altro i borghi marini con i loro nomi da buona novella – Pace, Paradiso, Contemplazione – e infine, mentre il traffico allenta le sue maglie, dopo aver superato anche i laghi naturali di Ganzirri con quell’afrore di molluschi che pizzica il naso e risveglia i sensi, giungiamo a destinazione, seguendo il richiamo delle case basse dei pescatori che sussurrano un’altra storia rispetto alla corsa a perdifiato verso il progresso.
Si può raccontare una città attraverso numerose prospettive. La gentrificazione dei quartieri residenziali, la speculazione edilizia, la morte delle zone verdi, la pedonalizzazione del centro. Io ho scelto il suo rapporto con il mare. E con la letteratura, ovviamente.
Messina è la mia città, il mio bozzolo e la mia trappola, un rifugio che sa anche opprimere, facendo morire lo sguardo sugli scogli anziché lasciarlo vagare sulle possibilità dell’orizzonte. Per la sua imperscrutabilità, è un caleidoscopio di vita e voci, di colori e sfumature, amori difficili e sguardi beffardi, destinati a imprimere un’impronta nell’anima del lettore, un solco sulla sabbia, un segno che scompare restando impresso sottotraccia, memento d’un tempo che non c’è più, che non è stato mai prima. E così, abbandoniamo la via maestra, ci lasciamo alle spalle gli alberi e le telecamere che scandagliano i nostri movimenti e scendiamo finalmente verso il mare, attratti dalla risacca che si spinge senza tregua contro i frangiflutti, in una tenzone infinita, un corteggiamento impossibile; qui le case sono più basse per opporre minor resistenza al vento, i muri dai colori marini sono sbrecciati, strappati via dal sale, i cardini delle finestre sferragliano per la salsedine e ogni cosa segue i capricci del mare, ossequiandone le potenza brutale.
Lasciate andare lo sguardo.
Ecco lo Stretto.
Il blu marino, illusione per poeti, in verità è l’impasto di colori che sbocciano e si frantumano creando gorghi dal fascino mortale, eco di Scilla e Cariddi, mitiche creature del sottosopra che ancora oggi ci ammaliano. Sfiliamo le scarpe, via anche l’orologio, i piedi affondano nella sabbia, sulla lingua di terra che porta verso la punta dell’isola, il punto più vicino alla Calabria, distante appena un braccio di mare.
Ci siete?
Adesso chiudete gli occhi.
Prima c’è solo silenzio.
Dopo, arriva il suono delle correnti, contagiandoci il ritmo infinito dell’andare, e quello del tornare. Il nostos, l’eroe che giunge a casa in un rincorrersi di eventi e vicissitudini. Il resto sfuma mentre nelle orecchie si fanno sempre più forti le urla dei pescatori, muscoli e sudore, i pellisquadre issati di vedetta sulla torretta delle barche. L’orizzonte era sgombro appena un attimo fa ma adesso, tenendo ancora gli occhi chiusi, eccoli davanti a noi, stentorei, tagliano le correnti sulle loro barche, le palamitare. Vanno a caccia del nobile pesce spada. L’uomo, la tecnica, il predatore contro la Natura. Sopra la nostra testa svetta il pilone di ferro che un tempo portava l’elettricità da sponda a sponda ma oggi è un disadorno memento del tempo che passa e intanto, sotto i nostri piedi lambiti dalle onde, pizzicati dai pescetti, dai morsetti della ciccirella, ecco ch’affiorano le pietrebambine.
Le sentite?
D’incanto, siamo già piombati fra le pagine di Stefano D’Arrigo, immersi, insavanati, dentro il mondo sonoro di Horcynus Orca, ammaliati dalla lingua onomatopeica che sa di mare e approdò in libreria nel 1975, dopo decenni di tormentatissima riscrittura, facendosi beffe delle richieste dell’editoria, dei suoi tempi scanditi dalle urgenze, carta mangia carta in nome del denaro. Alle nostre spalle, attorniato dai pescatori, sembra di sentire la voce dell’autore, rintanato come un ragno nella sua tela di fabula dall’intreccio labirintico, evocando la storia del «nocchiero semplice della fu Regia Marina, Ndria Cambrìa». Un’epopea composta di milleduecentocinquantasette pagine che lo hanno innalzato nell’Olimpo della letteratura mondiale, la risposta europea dell’inseguimento al mitico cetaceo bianco, il racconto d’un uomo che il 4 ottobre millenovecentoquarantatre, al tacere dei mortai, archiviata la gransoldatura della guerra, vorrebbe solcare lo Stretto pieno dei cadaveri di commilitoni per tornare alla casa del padre, chiudendo il cerchio della morte e baciare la terra amata. E intanto, un passo avanti e uno dietro, respinge e cede alle lusinghe delle sirene loquacissime e delle femminote, regine dai miseri destini.
Su questo lembo di terra emerso, stranezza di mare e d’oceano sotto, l’entusiasmo esplode quando la parola si spalanca e dentro vi ritroviamo il passaggio dei conquistatori che esonda nella lingua e giunge sino alla tavola, contaminando il pensiero e il gusto. In ogni pagina, in ogni rigo, in ogni nome di questo folle volo dantesco c’è un pezzo della nostra benedetta terra maledetta, la Sicilia.
E infine, ecco il canto delle fere, il lamento della maestosa Orca assediata, vinta, abbattuta.
Ma non aprite gli occhi.
Non ancora.
Non adesso.
Continuiamo a sognare. Con i piedi piantati sulla riva e la mente in preda alla magia delle parole.