Nella mia incapacità generalizzata di ricordarmi nel dettaglio una frase o un passo specifico di un libro, accade che si appuntano nelle pieghe del cervello quelle poche affermazioni che sono solito ribadire come se fossero un mantra. Quelle frasi mi piace modificarle, renderle mie, scriverle in diverse grafie su quaderni sparsi per coglierne il significato più profondo, decontestualizzato e alterato. Perché se le parole definiscono, allo stesso tempo smembrano.
Tra le mie frasi predilette, quelle destinate quindi a timbrare con la loro potenziale permanenza la mia mente, ce n’è una di Michele Mari che bene esprime anche quello che ho sempre considerato il mio goffo tentativo di approcciarmi all’esterno, il mio modo di incedere cauto nel mondo. Sempre schivo, assente dai mondi social, restio a rispondere, Michele Mari durante un incontro con Walter Siti ha affermato: “Io, per ogni dose di realtà ho bisogno di tre dosi di letteratura”. Questa frase ha sempre trovato in me un appiglio solido, mi ha rassicurato con il rifugio delle parole stampate tutte le volte che sentivo di dover trovare l’alternativa alle brutture della realtà.
Certo è che la maggior parte delle volte le storie che noi leggiamo sono nella loro natura più emotivamente dense, si focalizzano su lati dell’umanità a cui difficilmente diamo attenzione nella quotidianità, su anfratti dell’esistenza da cui generalmente stiamo lontani nella spontaneità dei nostri riti giornalieri. E finiscono, pure, queste storie. Letta l’ultima pagina, silenziata l’ultima parola, un respiro profondo crea la giusta dose d’aria per riprendere possesso della realtà e relegare la finzione ai caratteri scritti, chiusi tra copertine che riponiamo sugli scaffali e che poi dimentichiamo.
Ma cosa succede quando la realtà si impossessa della letteratura? Cosa accade nell’interno quando il romanzo che leggiamo segue le orme di una vicenda realmente avvenuta, non rielaborata, ma espressa in ogni suo dettaglio? I nomi che si leggono in quel libro specifico non sono inventati, non è lo scrittore il dio del mondo da lui stesso creato, non decide, lui, quali nomi siano migliori di altri per i suoi personaggi: le persone che compaiono tra le pagine hanno dei cognomi definiti, profili Facebook interrotti alla data della loro morte, hanno volti che non si presentano mutati con l’andare del tempo, ma nascondono dettagli che vengono alla luce con una minuziosa ricerca macabra. E a quel punto non si sa più da che parte stare, se da quella della finzione o della realtà.
Sappiamo che siamo di fronte ad un evento narrato di cui vogliamo assolutamente trovare le coordinate spaziali e temporali che ci permettono di posizionarlo nel giusto riquadro, quello della realtà o quello della finzione? Cercheremo i profili social dei vari protagonisti e tenteremo di arricchire quella storia di dettagli per decretare, infine, la loro posizione. Noteremo che uno dei protagonisti ha ancora attivo il suo profilo su Facebook, con una piccola differenza: è, ora, una pagina commemorativa costruita per ordine di chi, nel testamento digitale, è stato predisposto al compito.
Avremo ancora la possibilità di guardare l’immagine del profilo che prepotente, colorata, intensa, mostra gli occhi di chi nell’assenza continua a vivere nel virtuale, quegli occhi che appartengono ad un ragazzo che non appare come un mostro, ma come un ragazzo qualunque, un ragazzo che potrebbe essere tutti i ragazzi, un ragazzo come me. Scorreremo le parole di chi magari lo conosceva davvero, con l’interrogativo la cui risposta ci permetterebbe, infine, di prendere le dovute distanze; risalterà agli occhi l’ultimo commento che è stato possibile fare a quella foto ed una unica parola ci permetterà di sospirare: murderer. Definito, con una sola parola. E quasi proveremo sollievo a leggere quel “murderer” perché sappiamo che egli vive ormai solo nel libro, solo nelle parole, solo nel romanzo, non nella realtà, l’abbiamo scampata! Non è più tra noi, lui di là, noi di qua, con in mezzo un oceano di possibilità che ci fa sentire al sicuro, almeno fino alla prossima alterazione del mondo.
Questa finzione reale provoca gli stessi effetti collaterali di un’overdose: squilibrio, incapacità di conoscere i limiti, impossibilità di riconoscere ciò che si sta provando e di distinguere ciò che è buono e ciò che è cattivo. Ma quindi sta succedendo realmente?
Il bambino innocente e l’orco cattivo, entrambi definiti, entrambi scontati. Eppure leggendo qualcosa che affonda le sue radici nella realtà, quella vera, quella crudele, quella che viviamo tutti i giorni, non è poi così semplice distinguere e definire. Quando si capisce che l’orco è il vicino di casa, è un uomo con le nostre stesse inquietudini, i nostri stessi pensieri, le nostre stesse aspettative, rimpianti, incapacità, noi che ci crediamo invece i bambini virtuosi e innocenti, che non farebbero mai niente di eccessivo, di troppo eccentrico, di sconclusionato, ecco, è qui il momento di rottura.
Il vetro posto tra la realtà e la finzione s’incrina: il vuoto che viene avvertito è quello che ci fa rendere conto di poter essere noi i cattivi della storia, in una eterna lotta nella città dei vivi.