Rivista La città dei lettori

La necessità di un passato

By 1 Febbraio 2021 29 Aprile, 2021 No Comments

La necessità di un passato

Niccolò Protti

Mi hai riconosciuto all’istante. Tu eri a piedi, io in auto: mi hai fatto un cenno con la testa mentre ti venivo incontro. Ho visto la tesa del cappellino che ti copriva gli occhi sollevarsi appena: ha scoperto i tuoi occhi, mi sono sembrati neri come il mio cappotto. Il tuo naso mi è sembrato un naso normale, la tua faccia una faccia tonda ma normale. Vestivi completamente di nero. Io ho proseguito la mia corsa, schiacciando adagio sul pedale dell’acceleratore per raggiungere la mia casa. La mia casa?

 

Sono sceso dall’auto, ho preso il mio pacchetto e ho salito le scale. Ho aperto il portone e mi sono tolto il cappotto. Mi sono buttato sul divano e ho pensato a te che mi hai salutato, che mi hai riconosciuto. Chi sei? Chi eri? Chi sono io per te? Chi ero io per te? Chi sono io?

 

Sono circondato da oggetti. Mi dicono che sono i miei oggetti. Guarda – mi dicono – quello è il tuo letto: dormi sotto quelle coperte da più di dieci anni. Ti piacciono i cuscini bassi perché dormi a pancia in giù e quelli alti ti storcono il collo durante la notte – mi dicono. Davvero? – dico io. Lì c’è il tuo armadio: dentro ci sono le tue camicie a tinta unita, alcune col colletto alla coreana, altre più classiche. Nell’anta di fianco, invece, ci sono le tue giacche e i tuoi pantaloni.

 

Quella è la tua scrivania, di legno chiaro. Sopra c’è la tua lampada che sistemi sempre con cura prima di metterti a scrivere. Tu scrivi – mi dicono. Sono circondato da scaffali ricolmi di libri. Li hai sistemati tu – mi dicono – personalmente: nessuno può toccare i tuoi libri senza il tuo permesso. Dici sempre che un libro che non è al suo posto è potenzialmente un libro perso. Racconti sempre – mi dicono – di quando quella volta, in biblioteca, un addetto ti disse che un libro era stato perso perché forse non era stato rimesso al suo posto. Per te diventò un mantra. Mi dicono anche che lì in mezzo ci sono i miei libri, quelli che ho scritto io. Ma non riesco a trovarli.

 

Mi dicono tutte questa cose su di me. Ma sono io questo? E questi sono davvero i miei libri? Li ho letti davvero?

 

Scorro con i miei occhi marroni i titoli sui ripiani. Mi sembrano solo parole sistemate una accanto all’altra, senza soluzione di continuità: lo straniero, mille franchi, il soldatino di piombo, fame, chiodi, transito…

 

Mi fermo su un libro dalla copertina bianca, l’unico riposto in orizzontale: sul limite destro della costola vi è la sagoma di un uomo con un cappello, disteso sul fianco destro, con il capo poggiato sulla mano destra, come in un triclinio romano. È sezionato come un maiale, o come un bovino. Alla sua sinistra vi è una scritta in stampatello minuscolo: nottetempo. Questa parola canta – penso. A sinistra della parola c’è uno spazio bianco abbastanza largo. Alla fine dello spazio bianco c’è un’altra parola dello stesso colore dell’uomo sezionato: Labirinto. Alla sua sinistra, al limite estremo della costola del libro, c’è scritto Burhan Sönmez. Apro a caso e leggo:

 

«Si dice che a ognuno occorra un passato, e ora tutti si industriano a crearmene uno. Il passato è un treno che si allontana e svanisce nel buio, se non ricordi dove eri diretto e in quale stazione sei sceso, non potrai sapere chi sei».

 

Mi giro alla mia destra, verso quello che ho imparato essere il mio specchio. Dimmi cosa vedi. Vedo uno specchio.

 

Chiudo il libro e lo appoggio sulla scrivania di legno chiaro. La scrivania è vuota, fatta eccezione per la mia lampada. Mi avvicino alla finestra: sotto di me c’è una città, una via, qualche negozio, qualche persona che passeggia. Sul cornicione della finestra ci sono delle matite colorate sfuse. Le raccolgo tutte e le poso vicino al libro. Mi accomodo alla scrivania, sedendomi sulla mia sedia. Non è molto comoda. Apro a caso e leggo:

 

«Il bagno si riempie di vapore. Lo specchio di fronte svanisce. Boratin vorrebbe rimanere lì per sempre. Ma cos’è poi il pianto? Da una parte il cuore batte forte di paura, dall’altra il corpo raggiunge una quiete mai provata prima. Sa che nel suo corpo non c’è nessuno. Boratin è nessuno. Ma considera anche l’altra possibilità: può pure essere tutti». 

 

Chiudo il libro, di nuovo. Mi alzo e vado verso il mio bagno. Mi chiudo dentro. Faccio scendere l’acqua calda all’interno della vasca e mi spoglio.

Niccolò Protti

Diplomato cuoco, laureato in Letterature Comparate con una tesi su Agota Kristof. Si interessa di cucina come medium culturale. Scrive per «Lungarno» e «Nido Magazine». Per «Droga» cura la rubrica Mio nonno fa l’orto.

Lettura consigliata
Labirinto
Burhan Sönmez
Un giorno Boratin, un musicista blues che vive a Istanbul, si risveglia in ospedale avendo completamente perso la memoria: non sa piú chi è, da dove viene, qual è il suo passato e quale la direzione del suo presente, non ricorda gli affetti piú cari né le amicizie più prossime, e soprattutto si arrovella attorno a un interrogativo ossessivo e senza risposta: perché ha tentato il suicidio gettandosi già dal Ponte sul Bosforo? Attorno a questa costellazione di domande cerca di riprendere a vivere, riconquistando dimestichezza con volti, voci, spazi, storie, specchi, e in primo luogo con se stesso… Flâneur dei labirinti della mente e della città, percorre pensieri e strade alla disperata ricerca di una consistenza, a tu per tu con la tabula rasa della memoria, dalla quale emergono scomposti dettagli che non sa collocare nel tempo: davanti a una statuina della Pietà, si chiede se Gesú e Maria siano vissuti anni prima o millenni addietro, e scambia l’immagine del capo dello Stato con quella di un sultano vissuto un secolo prima. Con ritmo incalzante e analisi cristallina, il romanzo di Burhan Sönmez ci restituisce le peregrinazioni di Boratin nei misteri dell’identità, fino alla domanda estrema: è più liberatorio per un uomo – e per una società – conoscere il proprio passato o dimenticarlo?