Buenos Aires ha una grande quantità di palazzi e grattacieli dalle finestre piccole e dalle pareti costellate di condizionatori. La ‘Subte’, la metropolitana, raggiunge temperature siderali. Nell’estate argentina di sei anni fa, giravo con un k-way a portata di mano, una penna, un diario e una voglia matta di vedere la Biblioteca nazionale che aveva diretto Borges dal 1955 al 1973. Me la immaginavo maestosa, elegante, come la Biblioteca Marucelliana o la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Ma la realtà, maestra nel deludere le aspettative, specie se allocche e infondate, ci mise poco a rivelarmi che la biblioteca che aveva diretto Borges era un cubo gigante di cemento armato – molto più vicino a una navicella spaziale di Star Wars che a un edificio fiorentino.
Proprio quando la malattia agli occhi ereditata dal padre lo stava portando verso la cecità, Borges fu nominato direttore della Biblioteca nazionale della Repubblica Argentina, ovvero, della navicella spaziale di Star Wars figlia degli architetti Clorindo Testa, Francisco Bullrich e Alicia Cazzaniga.
Nel giardino che circonda il cubo di cemento armato, c’è una statua che ritrae Borges, seduto su una panchina. Il ritratto bronzeo di Borges ricorda per stile e atmosfera le opere presenti nel Volkspark Friedrichshain – un parco a est di Berlino – costruite negli anni della guerra fredda.
Ero arrivata alla Biblioteca nazionale dopo avere visitato il cimitero della Recoleta, quindi dopo avere ascoltato una guida parlare dei mausolei, delle tombe e dei marmi lì presenti. Avevo ancora in testa un racconto sulle disavventure a cui era sopravvissuta la salma di Eva Perón, più volte occultata e riemersa, sballottata tra l’Italia, la Spagna e l’Argentina.
Quando la guida aveva narrato le peripezie della salma di Evita, i miei pensieri erano andati alla salma di Mike Bongiorno, trafugata in Piemonte e ritrovata in un paese della provincia di Milano. Avevo provato vergogna del salto compiuto dalla mia mente – dal peronismo al re dei quiz – ma al flusso dei pensieri non importa un fico secco della coerenza, dello spazio e del tempo. Il pensiero di Mike Bongiorno mi aveva portato poi alla cucina di mia nonna, ai suoi pranzi, ai suoi petti di pollo impanati e cotti nel burro. E dai petti di pollo della nonna, avevo fatto ritorno al cimitero della Recoleta.
Entrai nella Biblioteca nazionale dopo avere poggiato una mano sulla statua di Borges che sembrava essere stata messa lì apposta per fare gli onori di casa. Camminai per stanze e corridoi inseguita da una frase pronunciata dalla guida del cimitero della Recoleta, prima di congedarsi: “Pare che in futuro vogliano trasferire le spoglie di Eva Perón in un’altra sede”.
Questa frase mi dava i brividi e, allo stesso tempo, generava in me dubbi, domande: “possibile che il passato sia così difficile da collocare?”, “com’è che è così complesso dare una giusta sede al passato?”.
Mentre combattevo tra il fantasma di Borges e quello di Evita, mi accorsi di essere in una stanza colorata con numerose teche contenenti libri dalle copertine più diverse. In alto, su una parete, si stagliava la scritta “El año mágico de García Márquez”. Senza accorgermene, stavo percorrendo una mostra dedicata al celebre autore colombiano. A cinquant’anni dall’uscita di Cent’anni di solitudine, la Biblioteca nazionale argentina esponeva al pubblico tutte le edizioni del romanzo nelle diverse lingue in cui era stato pubblicato, articoli dell’autore usciti sui giornali, la sua macchina da scrivere.
Quel cubo di cemento che avevo, a primo acchito, mal giudicato – perché la mia immaginazione era ostaggio del mio passato, della mia storia e della mia geografia – mi aveva riservato una sorpresa al suo interno, “El año mágico de García Márquez”, una mostra dedicata a un romanzo chiave della mia adolescenza.
La navicella spaziale di Star Wars mi stava insegnando che per guardare il presente occorre avere coscienza del passato, senza esserne però prigionieri. Era sciocco aspettarmi una Biblioteca Marucelliana in via Agüero, a Buenos Aires. Non potevo guardare al brutalismo con gli occhi di un architetto fiorentino del Cinquecento.
E, ancora, la risposta alle domande nate dalla frase della guida al cimitero della Recoleta, non poteva che essere questa: “Sì, è doveroso sistemare il passato.”
Proprio al passato, Joseph Campbell, uno dei più grandi studiosi di mitologia comparata, dedica un passaggio nel suo libro Sulla via del mito:
“Quando il processo vitale s’interrompe, la vita comincia a inaridirsi; tutto il significato dei miti sta nel trovare il coraggio di seguire il processo. Per creare qualcosa di nuovo si deve distruggere qualcosa di vecchio; e se siamo troppo ancorati al passato rischiamo di restare bloccati.”
Ogni libro rimanda a un altro libro, la stessa cosa accade con gli autori, con le autrici.
Da Borges ero arrivata a Márquez e da Márquez ero arrivata a Campbell, nell’estate argentina di sei anni fa.