Ogni tanto faccio questo. Prendo la macchina e salgo fino in cima al castello, che è un posto che noi chiamiamo così. E poi mi metto a leggere, non troppo ad alta voce: quasi sussurro le pagine di alcuni libri. E tutto questo dipende dall’umore e se ripeto le parole di una pagina di un romanzo o il verso di qualche poeta. A volte invece – più spesso – lo faccio nel silenzio di casa mia, non mi serve l’auto: quando questo accade accendo una candela, che sia giorno o sia sera poco importa. Quando alzo gli occhi dal libro vedo una luce, mi sembra quella che vedo quando – dopo aver parcheggiato l’auto – mi accoglie sulla tomba di mamma e di mia sorella. È luce tremola, anche il tono delle parole che leggo si trasforma così.
“Ci sono forse cose che vivono sotto forma di domanda?”, scrive David Albahari in Zink, un libro edito da Zandonai che è praticamente fuori catalogo perché l’editore è fallito e nessuno in Italia – a parte un timido tentativo di Einaudi – pubblica più questo scrittore serbo di origine ebraica. È un quesito – quello posto da Albahari in questo libro al quale spesso ritorno – che mi assale spesso, ma sempre dopo che leggo ad alta voce di fronte alla fotografia di mia mamma o di mia sorella: perché lo faccio? Perché quando sono a casa – e sono solo e magari sono le tre di notte e mi alzo improvvisamente e vado in salotto e accendo una candela – poi leggo ad alta voce alcune pagine di fronte agli scatti di mamma e di mia sorella? Così mi ricordo di ciò che ha scritto Albahari e se per caso non ricordo le parole esatte ripesco il libro e ritorno a quelle parole. In quel romanzo – che affronta la perdita del padre mentre invece ne L’esca parla della scomparsa della madre – c’è anche questo passaggio: “Da qualche parte del Talmud è scritto che i morti non parlano, ma sentono ciò che si dice loro: colui che parla è più vicino a loro di colui che tace”. E così mi è chiaro come mai io non parlo, ma leggo loro pagine delle altri: le mie parole si incepperebbero, franano ed è meglio se racconto qualcosa di bello. Come faceva mamma con me quando ero piccolo, io adesso faccio lo stesso con lei e le leggo cose bellissime, frasi che la cullano. Perché “non esiste il mondo, dice la ragazza, esistono solamente le parole”, scrive Albahari. Quelle che regalo loro, a mia mamma e a mia sorella.
Dopo la scomparsa di mia madre, mi sono imbattuto in testi e in autori – quasi tutti dimenticati – che affrontavano il tema della morte dei loro cari. A volte quei testi li ho cercati caparbiamente fino a quando non li ho scovati perché ognuno ha il suo modo di fare i conti con l’esercizio del dolore e io ho questo. È così che ho scoperto Sergio Solmi, una figura del Novecento, un altro dimenticato, un poeta e un traduttore e un animatore culturale. Un uomo, soprattutto, che era in grado di raccontare usando la precisione del bisturi e l’esplosione dell’arcobaleno. In un suo libro, fuori catalogo – si intitola Meditazioni dello scorpione e lo ha pubblicato Adelphi – Solmi scrive: “I morti ritornano più tardi, quando meno ce lo aspettiamo. E, infine, tutta la nostra vita potrebbe veramente definirsi un dialogo coi trapassati. Essi dormono, s’agitano, si lamentano in noi, lottano senza tregua col nostro cangiamento. Essi sono il segreto del nostro persistere, il peso che ci trae ad essere ineluttabilmente quelli che eravamo, il senso della nostra impossibilità ad assecondare docilmente il semplice e lieve respiro dell’esistenza. Essi ci raggiungono nell’attimo dell’abbandono: la stanchezza, la notte, il mare ce lo riportano, come ad Achille l’ombra di Patroclo insepolto. E vengono giorni aridi, che la terra non sa più partorirci che ombre”. Io non so se – come scrive – tutto questo renda “quasi beato, il nostro dolore”. Non so se quell’aggettivo – quel “beato” che Solmi mette lì, lo posa con tanta delicatezza da smuovere anche la brutalità più ottusa – va letto come lo intendeva Giacomo Leopardi – del quale lo scrittore ero uno studioso – oppure se il suo significato va ricercato nella sua etimologia: dare felicità. Per un attimo, infatti, sembra tutto in equilibrio, che tutto non sia mai accaduto. E sei quasi beato, come scrive Solmi. Fino a quando ti accorgi che è dolore e del dolore è il suo esercizio più estremo.
No, non è questo. O almeno non è solo questo quando questo accade. Perché quando questo accade – quando si legge ad alta voce o si recita una poesia di fronte alla tomba dei propri cari – accade invece qualcosa di più recondito. Ed è quello che dice Solmi quando scrive che “la terra non sa più partorirci che ombre”. Sono ombre quelle che rimanda la candela che accendo a casa mia. Sono ombre quelle che dispiega il tremolio della luce votiva. Sono ombre anche i cieli e ombre anche le parole che risuonano nel tuo orecchio. Sono ombre anche le tue mani. Quelle che usi per chiudere il libro e per ritornare in quel posto che è spietato. Quella realtà che non ha ombra. Quella realtà che è – solo – la tua ombra. La tua ombra da sola.