Se c’è una persona che mi ha segnato la vita, quella è mio nonno Comunardo. Che si chiamava così perché suo zio Arturo lo aveva battezzato con un nome anarchico come anarchico era lui, un sobillatore del popolo, di quelli che i Regi Carabinieri pedinavano: così si è sempre raccontato di lui in famiglia.
Mio nonno Comunardo è restato Comunardo fino a quando i fascisti poi lo costrinsero a cambiare nome perché l’anarchia – che prima tanto piaceva – da un certo punto in poi non piaceva più. Lui decise di chiamarsi Fernando e quando ero piccolo mi spiegava che quel nome assonava, gli ricordava quello vero. E mi diceva – nel piccolo salotto di casa – che però in paese del perché continuavano invece tutti a chiamarlo Mille, anche sotto il Fascio. “Perché da giovane fischiettavo ‘Se potessi avere mille lire al mese’: da allora sono diventato Mille”, ricordo che diceva. “Ma Mille sono anche i Mille di Garibaldi”, ricordo che diceva. “Un caso”, ricordo che sorrideva tutto furbo.
Lui è stato il primo a spiegarmi la vita, quanto meno a provarci. Il suo carattere molto spigoloso – e col mondo era più che spigoloso: era riottoso – si affrancava per diventare mite e delicato quando passavamo interi pomeriggi a parlare. Di lui ho l’immagine di un un uomo vecchio stampo, di quelli che non ne fanno più, sempre elegante, perennemente in cravatta anche quando era in casa, come se dovesse partire per un viaggio o come se ci fosse già, la brillantina a tirare i capelli indietro di chioma bianca, la parlantina sciolta, il giornale perennemente aperto, la polemica come forma di intelligenza, la battuta al vetriolo, di quelle cattive che è impossibile replicarci. A meno di non fare a botte.
Fu per questo che mio nonno – lo racconta Alfio Dini, socialista, primo sindaco del Dopoguerra, ne La notte dell’odio – si guadagnò di essere il primo della lista dei deportati a Ebensee. Era tornato dalla licenza, già in guerra non ci voleva andare, lo aveva detto quando Mussolini nel discorso alla radio annunciava il ricorso alle armi e lo aveva detto chiaramente in piazza, perché a Montelupo all’epoca c’era solo una radio ed era al Bar Centrale. Schedato socialista col nome anarchico, nonno era tornato dalla guerra – “mai sparato un colpo, facevo il portalettere, mi ero finto pazzo e aveva funzionato” – e aveva incontrato Cristo. Che non era Gesù, ma il nomignolo molto perfido che avevano assegnato al capò fascista del paese. “Dà retta, Cristo. Ma te come mai non sei al fronte che ti piace tanto Mussolini e a me che non mi garba sono a fare il soldato?” Cristo la prese male, lo aggredì. Non fu una buona idea: nonno – come quasi tutti all’epoca – era un uomo abituato alla violenza, sapeva menare le mani, reagì e gliene dette tante, ma tante che ancora quando raccontava questo episodio diceva “che soddisfazione”. Un po’ meno, però, quando la sera i fascisti vennero a casa nostra a purgarlo con l’olio di ricino.
A Ebensee però non ci finì. Perché riuscì a scappare durante il momento del trasbordo dalla ex casa del Fascio ai pullman che erano diretti alla nostra stazione: c’era la calca, c’era un paese intero per capire che fine avrebbero fatto 23 montelupini. In quella baraonda, tra donne che urlavano e bimbi che piangevano, nonno riuscì a individuare sua moglie, mia nonna Beppa, ad abbracciarla e – nel delirio del momento – a farle fare perno: nonna si girò piano piano, voltandosi di schiena e nascondendo così nonno col proprio corpo. Tre minuti dopo nonno si era nascosto in un forno, dove lo avrebbe raggiunto di lì a poco Bacchiole, uno che poi avrebbe sposato sua sorella Nella. “Lo sai vero che i carabinieri ci hanno visto e hanno fatto finta di nulla?”, gli chiese. “Dici davvero?”, rispose Bacchiole. “Hanno fatto finta di nulla, a modo loro ci hanno aiutato”, disse.
Di 21 montelupini ne tornarono cinque. Nonno e Bacchiole si dettero alla macchia, poi per nonno ci furono – a guerra finita – le riunioni del CLN per andare a ripescare i fascisti montelupini scappati a Milano, che lui – in quegli anni – conosceva. Gli altri montelupini morirono tutti, compreso il maestro delle elementari Giuseppe Lami, che era uomo dolcissimo e mite, molto religioso, troppo religioso. Di lui trovarono un bigliettino, che aveva fatto in tempo a gettare dal treno che da Montelupo lo avrebbe portato a Firenze. E da Firenze a Ebensee assieme agli altri. “Miei cari, vi ho tutti nel cuore. Fatti animo Anna, curate i bambini. Qualunque sorte mi si riserbi, sopporterò tutto affidandomi a Dio. Sia fatta la Sua volontà. Vi abbraccio tutti”: c’era scritto. Il pezzo di carta fu trovato sui binari, pochi metri dopo la stazione di Montelupo. Nonno non aveva preso quel treno, le stazioni sono sempre state un luogo molto strano per lui. Così come i vagoni.
Mi ha colpito questo, in questo libro. La prima frase: “Sono nato in un treno mentre la città bruciava”, scrive Daniel Vogelmann in Piccola autobiografia di mio padre. Suo padre si chiamava Shulim, stesso nome ha adesso suo figlio. È un libro di poche pagine ma che ha avuto il potere di portarmi ai racconti che della guerra faceva mio nonno e però di completarli, perché in questo libro c’è un uomo in fuga dagli orrori e dal campo di concentramento solo perché ebreo. Mio nonno – quando gli chiedevo come mai i fascisti se la prendevano con i socialisti come lui e con gli ebrei – mi diceva che il primo socialista della storia era Gesù, che era ebreo. “Nulla a che vedere con Cristo di Montelupo”, diceva. Ma questa ultima parte di frase gli veniva male, sapeva di amaro.
Deve essere per via di questo fatto molto biografico – di questa storia di diversità – che io sono sempre stato attratto da una cultura così complessa e complicata come quella ebraica. Le loro voci mi hanno sempre affascinato, ma mi sento talmente piccolo che non riesco davvero a comprenderne la loro vastità, pure se credo almeno di intuirla. E poi del fatto che gli ebrei sono per la loro natura apolidi li ha fatti – nella mia testa – pericolosamente somigliare a mio nonno, che aveva nome apolide. Io non so spiegarlo meglio, ma credo di averlo capito leggendo un altro libro di uno scrittore ebreo che non è ebreo (e forse per questo lo è profondamente). Si chiama George Perec e in Ellis Island-Descrizione di un progetto ha scritto così: “Avvicinandomi a questa isola abbandonata, attraverso il dialogo che ho tentato di instaurare con alcuni di coloro che – ebrei o italiani – passarono un tempo per Ellis Island, mi sembra di essere riuscito a far riecheggiare, a tratti, alcune parole che per me sono inesorabilmente legate al nome stesso di ebreo: il viaggio, l’attesa, la speranza, l’incertezza, la differenza, la memoria, e quei due concetti fiacchi, non individualizzabili, instabili e sfuggenti, che si riflettono vicendevolmente le loro luci tremolanti, e che si chiamano Terra Natale e Terra Promessa”.
Forse è per via di questo essere diversi – come se fosse sempre un’onta, un marchio che gli altri decidono di volerti affibbiare – che le storie come quelle descritte da Vogelmann mi paiono un modo per continuare un dialogo col mio amato nonno, che è scomparso fisicamente tanti anni fa. Ma che continua invece a esserci, anche nelle cose che sembrano – forse – molto banali: il nodo della cravatta io lo so fare perché quando ero piccolo – avrò avuto 8, massimo 9 anni: sì, ero decisamente piccolo – mi ha insegnato a farlo lui. Come mi ha insegnato a guardare le persone per quello che sono, e questo sinceramente non so se l’ho imparato come si aspettava imparassi. Ma ho ancora tempo per farlo. Il dialogo tra di noi continua da sempre, lo trovo spesso nei libri come quello di Vogelmann o nei gesti meno calcolati. Tipo quando vado davanti alla foto di lui in Versilia – è bellissimo, sorride felice – e gli racconto qualcosa di bello. Ne sorridiamo insieme e quello che vede di fronte a me, in momenti come questi, è Terra Natale e Terra promessa. Al tempo stesso.