Da tutta la vita voglio bene a una cosa morta. E la chiamo “cosa” perché non so nemmeno se mio fratello sia stato “qualcuno”, un essere definibile umano, oppure più un ammasso di materia organica senza consapevolezza di sé o della sua esistenza.
Non ha mai avuto un nome, non esisteva più ancor prima che i miei potessero definirlo uno dei loro figli, eppure ha condiviso con me un tempo ben specifico, lo spazio in cui mi sono formato e in cui si è costruita tutta la mia strada. In fin dei conti, è stata la prima presenza con cui sono venuto fisicamente a contatto, una composizione di cellule a me esterna che mi ha fatto compagnia ancora prima di svegliarmi.
Gli voglio bene, ancora oggi, ogni tanto ci parlo e forse gli voglio bene proprio perché non ho la possibilità di ricevere indietro un contraddittorio, tutti i miei “se” e i miei “ma” si perdono in una conversazione a senso unico per cui le risposte svaniscono e le domande non hanno punto interrogativo.
E quindi mi chiedo, si può voler bene a una cosa morta? E soprattutto, zitta?
La famiglia è sempre il luogo della colpa. Non si comprende mai, fino in fondo, se le scelte prese in autonomia siano tali o dettate da qualcuno di esterno, qualcuno che abita nella mente e che ordina un passo invece di un altro e che si chiama come le aspettative disattese. Se così fosse, se fosse la seconda opzione quella valida, l’essere che abita la mia testa sarebbe proprio mio fratello.
Sopravvivere a un fratello o a una sorella rende il proprio corpo per niente dissimile a quello di un mutilato, con una parte del cervello che risulta incompleta e tormentata dall’assenza dell’arto scomparso.
Non ricordo di preciso quando ho scoperto di avere un fratello gemello, ricordo i dettagli del racconto di mia madre e l’ossessione che avevo cominciato a sviluppare nel sapere come fosse fatto. O meglio, nell’immaginare come fosse fatto.
Ho diversi disegni di lui, come se mettendolo su carta potessi dargli quel corpo che qualcuno aveva deciso di non dargli, come se disegnandogli gli occhi o la bocca, o il colore dei capelli, potessi fargli vivere alcuni attimi su questa terra che io sentivo a lui ingiustamente rubati. Ho gli occhi verdi di mia madre, non so se li avrebbe avuti anche lui, ho le mani grandi e le gambe lunghe, ho sempre provato a immaginarmi come qualcuno di esterno a me ma che fosse in tutto e per tutto a me uguale. Avremmo avuto le stesse esperienze, avremmo conosciuto il sesso e il dolore nello stesso momento, avremmo giocato entrambi con le parole e ne avremmo fatto il mezzo di sostentamento della nostra vita. Ancora, domande senza punto interrogativo. Solo che lui è scomparso, e io no. E la mia vita avrebbe forse avuto una sfumatura diversa, se lui ci fosse ancora oggi? Stavolta, il punto interrogativo pare d’obbligo.
Quasi a compensare un’assenza d’improvviso svelata, avevo cominciato a dare forma, molto tempo dopo il racconto di mia madre, da un giorno all’altro, ad un amico immaginario che nella mia stanza viveva sull’armadio. Gli avevo dato il nome del mio migliore amico dell’epoca – Marco – e ogni sera, prima di dormire, gli raccontavo di com’era andata a scuola, cosa avevo fatto il pomeriggio, a che punto di Tomb Raider o Crash Bandicoot fossi arrivato e che libro stessi leggendo.
Oggi mi chiedo se mia madre o mio padre mi sentissero parlare ad alta voce, se per caso non mi interrompessero per lasciare a me la scelta di dirgli addio dentro di me, mi chiedo se abbiano mai avuto la possibilità di redimersi da quella scomparsa e se, permettendomi di parlare a lui ad alta voce, in qualche modo si illudessero, come me, di tenerlo ancora piantato in questo mondo così fisico.
Mi convincevo che quell’amico fosse mio fratello e che, raccontandogli per filo e per segno le mie giornate, potesse essere felice di condividere con me quei momenti. A un certo punto è sparito anche lui, me ne sono dimenticato senza essere consapevole di quale fosse il giorno esatto della sua morte, della seconda morte di mio fratello. Quando le persone muoiono, scompaiono due volte, una volta nel mondo fisico, la seconda in quello della memoria.
Si vive di mancanze. E si gioca, con queste mancanze. Si costruiscono mondi alternativi, mondi in cui le colpe di essere sopravvissuti vengono cancellate dal ripristino di esistenze che nel mondo reale non hanno più il loro spazio e il loro tempo, universi in cui i contatti non sono dettati da qualcosa che c’è realmente, ma da qualcosa di immaginato, eppure sempre legittimato.