Erano diverse notti che mi appariva in sogno.
Io e lei soltanto.
Durante quello stato alterato di coscienza non c’era posto per gli intrusi.
La sentivo scalciare e fare rumore ogni qualvolta un mio futile pensiero cercava di intromettersi tra noi, cospargendo lungo quell’asfalto stellato profondi buchi neri.
Dove il frastuono della parola non era ammessa.
Contemplarla dall’antro del mio subconscio era il dono più bello che la notte potesse concedermi dopo una lunga e faticosa giornata al fianco di gente clandestina.
Ubriaca di verbi pronti a soffocare le più intime esistenze e a bestemmiare un dio in cui neanche credono, per il semplice gusto di riempire lontane mancanze.
Ricordo con orgoglio e paura la volta in cui ti vidi per davvero.
Nascosta dentro un quadrato di mattoni e cemento, solo una saracinesca arrugginita impediva la tua fuga: timida e silenziosa mi scrutavi con fare interrogativo.
Con la promessa che di lì a breve, ciò che era stato “semplicemente” onirico stava per assumere forme e colori di orizzonti lontani: gli stessi che fino ad ora ci eravamo prefigurati ad occhi chiusi.
Non conoscevo il tuo vero nome tu però conoscevi il mio e quello di mio padre; sei sempre stata il suo cavallo di battaglia, soprattutto nei giorni più bui.
Durante i quali la sua rabbia era libera di esprimersi attraverso la leggerezza che il tuo corpo di acciaio infondeva ad ogni cambio di marcia.
“Se la tratti bene non ti tradisce” mi ricordava il Maestro con la m Maiuscola.
A patto che la faccia sentire speciale e le dia le giuste attenzioni”.
“Altrimenti che succede?” chiedevo di rimando tra il serio e il faceto.
“Ti lascia col culo per terra finché il cemento non ti consuma sino al midollo”.
Insieme avete intrapreso numerosi viaggi e vi siete impregnati delle lacrime del cielo; condividendo un carburante che nessuna pompa di benzina sarebbe in grado di fornire.
Eravate una cosa sola.
Un uomo anziano dal viso tempestato di rughe e un cavallo metallico dalle curve nere: pronti a solcare ciò che il cuore di un uomo sente pulsargli nel petto ma che ingenuamente teme di vivere.
Sollevando la maniglia il rumore della saracinesca tagliò di netto l’atmosfera silenziosa perforandomi i timpani.
Era un suono che non conoscevo e che ridestò nella mia coscienza uno squarcio talmente infinitesimale da convertire il dubbio in certezza: che proprio tu attendevi da tempo il mio arrivo.
Con cautela iniziai ad avvicinarmi quasi temendo di invadere un territorio più vasto di quello spazio dove per la prima volta ci stavamo incontrando.
Le mie mani, prima la destra e poi la sinistra scivolarono delicatamente sulle tue, sopra le quali un corpo lontano e al contempo presente abbracciava il mondo in una stretta invisibile.
Il mio sguardo catturò le tue linee sinuose adornate di gioielli pronti a risplendere: il mio corpo pronto a fondersi nel tuo.
Estraendo con calma il Suo mazzo di chiavi con la scritta “Moto Guzzi”, ogni singolo gesto rispondeva ad una logica proveniente da una dimensione remota e della quale non avevo la minima contezza: non ero in me.
Introducendo la punta metallica temevo di ledere ogni fibra del tuo essere, così con solenne lentezza decisi di andare fino in fondo: per poi volgere le mie speranze verso un’unica e inafferrabile direzione.
Quella che il Maestro a mia insaputa aveva tracciato con i suoi sorrisi e la sua ciclopica furia.