Ci sono anni nella vita dove tutto ci appare possibile. Anni necessari e fruttuosi, che ci fanno mettere un mattone sopra un altro, accanto a un altro, nella costruzione della nostra strada. Quegli anni noi li riempiamo di fantasia.
Di solito ci ostiniamo a sognare in età giovanile, quando ancora non si è distanti dai giochi, ma si sbircia già nel futuro. Ma accade anche di vagheggiare in età adulta, quasi sempre quando si decide di ricominciare, di rimettersi in gioco.
Siamo predisposti al sogno anche come via di fuga da un destino che proprio non ci piace. Ci rifugiamo nelle chimere, sperando che a forza di immaginare si possa davvero cambiare la realtà. Perché non sempre quello che abbiamo ereditato dalla vita ci va a genio. Nasciamo con un bagaglio pieno di vestiti usati e spesso non ci sono abiti per tutte le occasioni. In questi casi il mondo immaginario diventa fondamentale per riuscire a leggere con chiarezza i propri desideri. Scevri dalle manipolazioni esterne, nel mondo immaginario troviamo la forza di ribellarci e la speranza: un sentimento operoso senza il quale niente può avere seguito.
Ma alle volte siamo già in trappola. Alle volte la via di fuga non esiste. Arriviamo in questo mondo con una storia già scritta, e non è sufficiente attrezzarsi all’evasione. Perché ci mancheranno le armi e la mappa. Alle volte, semplicemente, non possiamo scappare, perché non ne abbiamo il coraggio. E allora il sogno diventa la nostra vita: il resto, solo un nebuloso alloggio dove far muovere il corpo.
1933 Un anno terribile di John Fante mi ha riportata a questi pensieri vaghi e malinconici, mi ha scaraventata nei miei anni giovanili, dove bastava un complimento da chi ammiravo per immaginarmi migliore. Dove un ragazzino dallo sguardo fiero mi faceva credere nell’amore, dove i divieti erano il nutrimento per le mie ribellioni, dove la vita era ancora da vivere. E allora ripenso ai miei compagni di scuola. Alle ambizioni fanciullesche. C’era chi voleva diventare medico, chi astronauta, chi scrittore. Alcuni ce l’hanno fatta, altri hanno cambiato idea mille volte. Altri ancora hanno seguito una sorte imposta.
E poi c’ero io, che non volevo diventare niente. E quel niente che mi portavo dietro – lo dico oggi perché finalmente lo vedo – era una tutela. Un’immaginazione salvifica che mi ha condotta, paradossalmente, a credere in me. Io non volevo essere nessuno. Volevo imbrogliare il fato, che mi destinava a figlia di gente famosa. Volevo sparire, sognare di non essere. E chissà, forse quei sogni sono oggi parte della mia libertà. L’aver combattuto per togliermi di dosso le etichette già stampate mi ha messo in salvo dalle aspettative. Dalle delusioni. E mi ha dato la forza di essere me stessa, nonostante il sacco che portavo sulle spalle. Un sacco pieno di altri.
Ecco cosa fanno i bei libri. Ci guidano a capire. Ci regalano gli strumenti per comprendere, per comprenderci. E Fante, con il suo romanzo sublime, dove racconta di un giovane americano in lotta con un antagonista incorporeo che è il suo piccolo mondo disperato, mi ha costretta a stare un po’ male. Quel male che fa bene. Pensieri scomodi, che cambiano lo sguardo. E danno peso ai giorni lontani che mi parevano solo di passaggio. Ma che erano, al contrario, sostanziali.
“Oh, Braccio! Braccio forte e fedele, parlami con dolcezza. Parlami del futuro, della folla osannante, il lancio che vola al limite dell’irregolarità, i battitori che si molleggiano sulle ginocchia, dimmi che fama, fortuna e vittoria ci apparterranno. E un giorno moriremo, e giaceremo uno accanto all’altro in una tomba, Dom Molise e il suo meraviglioso braccio, il mondo dello sport sotto shock, il lutto, il telegramma del Presidente degli Stati Uniti alla mia famiglia, le bandiere a mezz’asta in ogni stadio della nazione, i fan che piangono senza ritegno, la biografia in quattro parti di Damon Runyon sul «Saturday Evening Post»: Trionfo sull’avversità: La vita di Dominic Molise.”
Dominic Molise, figlio di immigrati senza pace, povero in canna, con il braccio sinistro potente come un tuono e con il sogno di diventare il più grande campione di baseball di Los Angeles, rappresenta, suo malgrado, il fallimento di un decollo. Ma ci mostra anche quanto i sogni, ben costruiti e liberi dal pessimismo, possano in realtà cambiare la sfortuna in fortuna. Lui ce la metterà tutta e in fondo io spero che, prima o poi, quel ragazzo bruttino e appassionato sia riuscito a dare scacco al destino infame. Perché 1933 Un anno terribile fa proprio questo. Ti fa entrare nella vita disagiata di un adolescente alle prese con l’arrivo dell’età adulta, e ti porta a tifare per lui. Al punto di fantasticare un seguito felice, dove sarà veramente il più grande battitore di tutti i tempi. Dove la sua fama allargherà il sorriso della madre, troppo triste per non morire.