Procida non è Capri e non è Ischia. Procida è la figlia un po’ storta, quella meno attenta alle rifiniture dell’esterno e quella con i lineamenti più strani. Il mare è nero, agitato, quando ci sono stato era mosso e inquieto, come per mettere in chiaro che quelle casine colorate che si affacciano sulla lingua di spiaggia principale o quei tramonti introspettivi fossero soltanto un bel vestito per nascondere i movimenti sotterranei, quelli che fanno tremare le fondamenta e le convinzioni più salde.
Poi c’è un punto alto, una posizione privilegiata da cui ammirare tutto. E tra questo tutto si fa spazio un edificio maestoso, il Palazzo d’Avalos che per centocinquant’anni è stato una prigione. Tra queste mura era rinchiuso un uomo che per un altro uomo era fonte di struggimento e di amore.
Nun trovo ’n ‘ora ‘e pace
‘a ‘notte faccio iuorno
‘sempe pe sta ‘cca ‘ttuorno
speranno ‘e te parlà!
L’innamorato si chiamava Wilhelm Gerace.
Nascere e vivere a Procida. Se tornassi indietro avrei solo questo come desiderio: nascere e vivere a Procida. Ho questa immagine, in mente, da non so quanto tempo. C’è un gruppo di bambini che gioca a calcio, è un pomeriggio di fine estate, tardo pomeriggio, quando il sole cala e quindi, alla fine, non fa più così caldo. Un bambino si allontana, è più magro degli altri, si annoia a giocare col pallone e si siede a terra, a gambe incrociate, a passare il tempo con due o tre legnetti. È scalzo, in pantaloncini rossi e una canottiera azzurra, di un colore però poco intenso, spento, come consunta, appartenuta probabilmente a qualche fratello maggiore o qualche cugino. Attende, per una probabile chiamata a tavola o per aspettare che il sole vada via del tutto e, finalmente, ritirarsi in camera sua senza sembrare quello fuori dal gruppo. È un’attesa, ferma in un attimo. Il mare sulla sinistra che si agita e si sfoga sulla sabbia e sulle caviglie dei bambini, come per richiamarli e incitarli ad andare a casa, che ormai è freddo, basta giocare. E lui, l’unico in disparte, non sa che quel suo sentirsi fuori luogo, quella sensazione di incapacità che inizia a nascere nel suo stomaco, sarà per lui fonte di una liberazione finale. È seduto, guarda i movimenti degli altri, guarda la luce, si alza e se ne va.
Quel bambino di nome Arturo è il figlio di Wilhelm. Si vive, da bambini, con la convinzione che il mondo privato in cui cresciamo sia davvero il migliore dei mondi possibili. Abbiamo gli eroi a cui affidarci, a cui ispirarci, e spesso e volentieri questi eroi non sono solo i protagonisti dei libri o dei film, ma sono i nostri genitori, i nostri zii, i nostri nonni. Eroi che sembrano in grado di declamare verità indistruttibili, di proteggere qualsiasi figlio da qualsiasi male, di apparire incorruttibili e guai a chi viene in mente di metterli in discussione. Si cresce con le convinzioni salde di chi ha ragione, di chi ha la chiave della felicità e della vita perfetta. Poi si diventa adulti e tutto si incrina. Si vedono le debolezze di questi eroi, se ne vedono le imperfezioni fisiche una volta che si tolgono le armature, se ne vedono le sfaldature interiori, i precipizi da cui si sono lanciati, le idee sformate e gli ideali caduti. E quindi si cerca di fare di meglio, prendendo altre strade o ripercorrendo le stesse ma con strumenti differenti.
Percorrere a piedi le strade di Procida è come seguire i passi di un amore non corrisposto. L’aliscafo mi lascia al porto, è il tripudio di colori, di rumori, di speranze, subito viene spontaneo lanciarsi all’inseguimento del punto più alto, del punto più bello. Quindi si fatica, si sale su, ancora, qualche passo, e si arriva là dove tutto appare con un senso, dove ci si sente completi nonostante la distanza, dove solo pensare a quell’unico punto riempie di gioia e di sorrisi immotivati. Poi la vista non basta più, mi voglio addentrare di più, conoscere di più, e all’improvviso mi perdo, non so dove andare, mi giro per cercare un punto di riferimento ma non ne trovo, c’è solo il carcere a sovrastare tutto, con le sue mura per niente eloquenti. E mi precipito in una strada minuscola, ai lati piccoli arbusti spogli e soprattutto il silenzio. Lascio che il silenzio mi calmi, mi chiedo se tutto quello che provo è in qualche modo giustificato o se è solo qualcosa di cui mi convinco per sentirmi vivo. Quindi cammino più lentamente, riprendo possesso dei miei passi, dei miei pensieri, e cerco di dimenticarmi dell’isola, di quanto la ami e di quanto abbia bisogno di lei, di rivederla ancora, di essere felice solo guardando i suoi colori e ascoltando i suoi rumori. Consapevole della mia debolezza, sono pronto a rimettermi nel mondo.
Sbuco su una spiaggia, lunga e stretta con un’estremità orizzontale mangiata dal mare e l’altra bloccata da alte pareti di roccia. Il mare è assordante, scuro, ma magnifico. È il rumore del mondo di cui mi sono dimenticato per tutto un tempo. È il mondo che ho deciso di non vedere né sentire perché mi bastava la vista di chi ho amato e che non mi ha voluto. E questo rumore che ora mi stordisce mi era mancato. Mi ci vorrà del tempo per abituarmi, ma la riabilitazione arriva, a un certo punto.