La mia generazione è cresciuta con i Puffi; per quanto ogni abitante di quel villaggetto fosse e sia degno di nota, quello che più di tutti ha colpito la mia fantasia, rimanendomi in mente a distanza di decenni, è Puffo Brontolone: quello che, davanti a qualsiasi idea, avvenimento, discussione, interveniva iniziando il suo discorso con “Io odio…” ed esprimendo negatività, disagio, dissenso. Ovviamente, messa in quel modo, la questione faceva ridere: Puffo Brontolone era l’incarnazione di quel(la) familiare o conoscente, che esiste in tutti i milieu, che ha sempre da ridire su tutto, fino al punto da diventare una macchietta.
Chissà, però, se Puffo Brontolone c’entra con la noncuranza e leggerezza con la quale usiamo il verbo odiare: si odia l’ananas sulla pizza come si odia il tempo ventoso, si odiano i calzini di spugna bianca con i sandali come si odia il traffico. Forse, l’abuso di odiare è collegato alla tendenza ben documentata nel corso degli ultimi decenni a usare un linguaggio ipertrofico, sopra le righe, nel quale si parla di evento anche per definire un aperitivo con gli amici e di tragedia per un qualsiasi avvenimento nefasto, nel quale si usano continuamente superlativi -issimi e suffissoidi come mega–; nel quale l’unico modo per essere d’accordo o in disaccordo passa dal dire assolutamente sì e assolutamente no, come se i semplici sì e no non bastassero più, e nel quale si vieta severamente, altrimenti non è un vero divieto. Insomma, seguendo questa linea di pensiero, odiare che si mangia il campo semantico del non mi piace/non mi sta simpatico è più che comprensibile.
Tornando, però, a questioni più serie, ritengo che in questo momento storico sia particolarmente importante ragionare di cosa voglia dire davvero odiare, dato che la nostra società, a causa di una serie di trasformazioni radicali (la globalizzazione, internet, la pandemia), sembra essersi trasformata in una vera e propria polveriera pronta a deflagrare. Lungi dall’averci resi tutti più vicini, pare che la situazione di paura e disagio legata, probabilmente, anche al timore di morire, abbia acuito le divergenze tra le persone, allontanandole le une dalle altre. Ed ecco che gli sforzi di richiamare a un bene comune, al “ne usciremo insieme”, sembrano infrangersi contro un distanziamento sociale che è diventato, al di là delle intenzioni, una vera e propria distanza relazionale, un’indifferenza al prossimo.
Se vogliamo, come auspico, andare invece nella direzione di una società di convivenza delle differenze, come la chiama Fabrizio Acanfora, a mio parere diventa imprescindibile tornare alle radici del malessere, dell’odio stesso: comprenderne la semantica e il funzionamento, circoscrivere il fenomeno, nominarlo correttamente e conoscere le regolamentazioni che lo riguardano online e offline – o meglio, nell’onlife, secondo la bella definizione di Luciano Floridi. Che cos’è, dunque, lo hate speech e perché è così difficile definirlo? Quanto conta la parte di incitamento all’odio, oltre a quella della mera espressione di odio verso qualcosa o qualcuno? Perché, al di là di quello che molte persone sembrano pensare, le parole sono importanti, e perché la soluzione non è la semplice creazione di liste nere di parole vietate? Ma soprattutto, qual è il ruolo che ha, nella formazione di una società migliore di quella in cui viviamo attualmente, ognuno di noi?
In un mondo che tende all’othering, ossia all’altrizzazione, al pensare che la colpa sia degli altri e che comunque io non possa fare nulla di concreto per contrastare certi fenomeni, ci voleva il libro di una persona altamente preparata, ma contemporaneamente militante, per fornire una bussola a chi sente di non potersi accontentare di stare alla finestra, come gli indifferenti di gramsciana memoria. E questa persona, questo autore, è Federico Faloppa: professore all’università di Reading, ma anche appassionato difensore dei diritti umani e civili in molte altre sedi: la fondazione Langer, il Consiglio d’Europa, Amnesty International. Una di quelle persone che fanno da anello di congiunzione tra il mondo accademico, che spesso appare distratto, e la quotidianità. Il libro di Faloppa, #Odio, reca come sottotitolo Manuale di resistenza alla violenza delle parole. L’autore sceglie resistenza, un termine che rinnega l’idea di contrapporre odio all’odio, che rinuncia alla metafora apertamente bellica. L’odio non si combatte, non si sconfigge: non si fa la guerra all’odio, se non altro perché l’odio fa parte di noi. Piuttosto, bisogna imparare a difendersene con pazienza, decostruendo e costruendo, cercando di comprendere anche chi, invece, cede alla pratica tutto sommato facile di odiare. #Odio non presuppone che dobbiamo solo difenderci dall’odio degli altri, ma che sia necessario identificare le pulsioni d’odio dentro di noi. In un mondo abituato a pensare che siano sempre gli altri a sbagliare, gli altri a non sapere, è necessario prendersi la responsabilità di cambiare le cose prima di tutto in sé e per sé.