Dai quattro ai dodici anni, per il giorno del mio compleanno, ho sempre ricevuto due bambole. Una come regalo della nonna paterna e una dalla sorella di mia madre. Che si trattasse del modello con gli occhioni enormi o della biondina platinata con i vestitini striminziti alla moda, poco importava. A me le bambole non piacevano. Come non mi piacevano e non mi piacciono tuttora il rosa, l’uso dei vestitini coi fiorellini e tutte quelle cose tipiche delle bambine che vengono instradate a diventare delle giovani donne e poi delle madri perfettamente racchiuse nel ruolo femminile.
A me interessava giocare a pallone, e i sandali tutti aperti e con un primo accenno di tacco davano fastidio, mi rallentavano e mi facevo male alla punta delle dita quando calciavo. Forse per questo ho imparato prima dei miei amichetti del cortile a calciare ‘di esterno’ e non con la punta. La gonna era ingombrante e scomoda se volevo salire sul pesco che la nonna materna, Elvira, aveva nel campo di famiglia. E, se volevo piegarmi a raccogliere un verme rosa o uno di quegli scarafaggi cicciotti, le sue pieghe non mi permettevano di allargare le gambe e piegarmi come avrei voluto senza che qualcuno da dietro gridasse “così si vede tutto, stai attenta!”.
Alle volte, soprattutto guardando mio cugino Enrico, mi sentivo rallentata dal mio essere una bambina invece che un bambino, anche se non ne comprendevo a fondo la differenza. L’unica cosa che ci distingueva era che Enrico non aveva abiti scomodi che lo impacciassero, che poteva mettere i piedi in una pozzanghera senza che la madre si disperasse per le scarpine bianche. Ma chi porta a giocare al parco i propri figli con scarpe bianche? Risposta: chiunque si occupasse di me prima che avessi la capacità di imporre le mie scelte e le mie preferenze.
Andando avanti, ho scoperto che, se il calcio era da maschi e la danza classica per bambine (potete ancora chiedermi di mostrare un élancer di tutto rispetto), anche la passione per i motori mi era non dico proibita ma almeno osteggiata fortemente. Così, quando Enrico poté guidare il primo motorino a sedici anni, io passavo una quantità eccessiva di pomeriggi liberi a imparare a fare pupazzi e maglioni colorati all’uncinetto. Spesso, persino, facevo da baby sitter al fratellino minore di Enrico, proprio mentre lui usciva con gli amici in motorino!
Ancora, a vent’anni andammo in vacanza con degli amici in comune, d’altronde avevamo la stessa età e il paesino dove abitavamo non era poi così grande da poter avere amicizie separate. Lui tornò con un tatuaggio in grado di coprire gran parte dell’avambraccio. Fu accolto come un eroe di guerra da quegli stessi parenti che, quando per caso mia madre scoprì che avevo anche io un minuscolo tatuaggio sul costato, una frase per la precisione, si sconvolsero e inorridirono a tale scempio. Ero sempre stata convinta che questa disparità di trattamento e di visione fosse riservata a me. Che riguardasse la mia famiglia, il mio paesino di tremila anime e cinque gatti. Scoprii invece che tutte ci sentivamo così. Anzi, tutti.
La mia storia era, incredibilmente, anche quella di Enrico. Mio cugino non aveva mai voluto essere iscritto nella squadra di calcio, ad esempio, avrebbe preferito il nuoto. Enrico non amava davvero giocare con i pupazzi a fare la guerra, si sarebbe voluto impegnare sui puzzle coloratissimi e immensi che sua zia lasciava a vista sul tavolo della sala da pranzo. La passione per i motori, invece, era vera in entrambi e ci accomuna anche oggi. Allora eravamo incastrati in ruoli stretti e dai confini troppo rigidi e imparammo solo col tempo a fare emergere la nostra voce e la nostra volontà. Per anni ci sentimmo soffocati da qualcosa che non sapevamo spiegarci e di cui non riuscivamo a cogliere l’esistenza. Era una forza invisibile che ci circondava e ammantava di una sonnolenza sociale tutti coloro con cui entravamo in contatto, asserviti da anni di inedia culturale. Ecco, questo romanzo ci ricorda di guardarci intorno e scegliere la nostra strada, a prescindere dal binario che la società vuole assegnarci.