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Simone Lisi

Nelle molte case in cui vidi abitare mio padre, in quelle stanze o appartamenti dove andavo a trovarlo nei fine settimana, rigorosamente alternati, alcune volte restando a dormire con lui direttamente nel suo letto perché alloggiava in una stanza singola e non c’era altro spazio, alle volte dormendo su un divano-letto perché si era organizzato diversamente o forse perché io ero troppo cresciuto per dormire insieme a lui, ciò che sempre rimase costante in quegli anni e case fu un libro sul comodino oppure appoggiato sulla lavatrice nel bagno, o comunque ben visibile in casa, un libro che era sempre lo stesso libro.

 

Nel periodo in cui mio padre visse con una comunità di buddisti, lo ricordo, il libro era appoggiato vicino a quel loro tempietto buddista. C’è un nome indiano o giapponese che ha il tempio di fronte a cui si inginocchiano, ma adesso non lo ricordo, potrei anche ricercare il nome, ma in fondo non mi interessa. Fatto sta che il libro era appoggiato proprio là, sopra il mobile, senza che questa fosse una provocazione da parte di mio padre o un modo di dire: ecco vedete, miei cari coinquilini buddisti, questo libro sta sullo stesso piano del vostro Dio. No, era semmai una maniera di ricordare a tutti loro che un mobile, oltre che un simbolo, è pur sempre un mobile. Ma lasciamo stare.

 

Le stanze dove visse mio padre in quegli anni erano molto diverse tra loro, in zone della città differenti, una la ricordo in pieno centro, in via dei Calzaiuoli, altre in periferia o in quartieri residenziali, ma per lo più erano accomunate da un arredamento minimale che è poi anche un modo diverso per dire “provvisorio”. Stanze che probabilmente lui avrebbe lasciato nel giro di qualche settimana o mese o al massimo anni in vista di altre soluzioni più stabili o maggiormente economiche, oppure di nuove amicizie, o di nuovi buddisti o di nuove fidanzate.
Io non pensavo, no, non mi importava, che una certa casa o stanza in cui andavo a trovare mio padre potesse essere l’ultima volta che ci mettevo piede, e neppure m’importava che mio padre non appendesse alla parete, con una puntina da disegno, i piccoli fogli colorati con sopra antichi romani o egizi che dipingevo per lui (sebbene il fatto che io ricordi ancora questo particolare a distanza di decenni sembrerebbe dimostrare il contrario). “Fai un disegno per tuo padre, così ti penserà”, diceva mia madre per farmi trascorrere un po’ di tempo, e io giù capo chino a colorare una torre d’assedio romana; ero veramente fissato con la guerra, da bambino, forse dipendeva dal mio segno zodiacale, ariete, o magari da altro, ma adesso non è questo il punto.

Passarono così molti anni, ci furono molte case (“Non chiedermi come sto, chiedimi quante case ho cambiato” diceva un maestro zen da cui mio padre a volte mi portava, dovevo avere otto o nove anni d’età), ma quello che non cambiava mai, come dicevo, era il libro feticcio di mio padre.

 

C’erano anche altri libri in quelle case, è ovvio, ma quel libro specifico non mancava mai, e in una posizione leggermente preminente. Era un romanzo apparentemente normale, niente di esoterico, un romanzo scritto da un autore europeo, francese, un romanzo della seconda metà del Novecento. In copertina c’era scritto il titolo, un piccolo disegno al centro, mentre il resto della copertina era gialla. Ricordo in alto il nome dell’autore, con quelle vocali che una di seguito all’altra non sapevo bene come pronunciare. Il libro era un’edizione economica, niente di prezioso, forse appartenuto a mio padre già in giovinezza, o forse conoscendolo l’aveva comprato all’usato.

 

Fu solo molti anni dopo, moltissimi anni dopo, quando mio padre era ormai un signore molto anziano e io un uomo in età da pensione, dopo che tantissime storie erano intercorse tra quel tempo passato e quel presente attuale, e dopo che i rapporti con mio padre avevano fatto in tempo a deteriorarsi, a interrompersi e anche a rinsaldarsi, fino a raggiungere una certa amorosa quiete, fu allora che tornai a interrogarlo sul perché del libro. Sul motivo di quel feticcio. Quale fosse la ragione profonda per cui lui avesse deciso di legare il suo destino a quel libro specifico (senza menzionare il peso che quel libro e quell’autore avessero avuto conseguentemente su di me, tanto da fare sì che io diventassi quel che ero, ovvero uno scrittore).

 

Lui mi guardò con i suoi occhi azzurro-grigi costellati di piccole punte dorate, occhi che un poeta potrebbe definire a tutti gli effetti “glauchi”, e mi disse che non c’era nessun motivo specifico, che fondamentalmente non gli era mai riuscito di andare oltre pagina trentanove.
Tutto qui.

 

Poi anche quel momento passò. Mio padre invecchiò ancora e poi alla fine morì e io passai i successivi anni della mia vita a cercare di capire il simbolismo nascosto in quel numero, trentanove, senza trovare nessuna spiegazione, forse perché in effetti non ce n’era nessuna.  

Simone Lisi

È nato a Firenze nel 1985. Libraio e scrittore, i suoi racconti brevi sono usciti su Verde Rivista, L’inquieto, Scrittori Precari, CrapulaClub. Nel 2014 ha fondato con tre amici il collettivo In fuga dalla Bocciofila. Ha pubblicato due romanzi con la casa editrice effequ.

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Il re degli ontani
Michel Tournier
Abel Tiffauges è un garagista parigino che scopre in sé un’ambigua attrazione per i ragazzini. Allo scoppio della guerra, nel 1939, Tiffauges viene mobilitato e, in seguito, fatto prigioniero in Germania. Qui compie una carriera prodigiosa e, fattosi complice degli orrori hitleriani, diventa l’orco di Kaltenborn, la fortezza in cui le SS selezionavano e allevavano i ragazzi destinati a essere l’élite del Reich millenario. Personaggio inquietante, sgradevole, anomalo, Tiffauges è il mostro nel senso etimologico del termine: il monstrum è il prodigio, l’essere che suscita meraviglia e che potrebbe dar vita a una nuova specie. Scegliendo il suo punto di vista Tournier incentra su di lui tutti i temi dell’orco rapitore di bambini, la capacità del nazismo di «fare massa» trasfigurando gli individui in un corpo compatto e inarrestabile e le inversioni pulsionali non inquadrabili entro alcuna cornice di normalità. E soprattutto il tema della «Foria», del trasporto, che percorre tutto il romanzo in una molteplicità di variazioni e ricombinazioni simboliche.