Rivista La città dei lettori

Se davvero tutti esistono

By 29 Marzo 2020 15 Novembre, 2021 No Comments
gregory crewdson

Se davvero tutti esistono

Gabriele Ametrano

Guardo il parco davanti a me: è vuoto. Guardo la strada in basso, dal mio quarto piano: è vuota.

 

La vita si è fermata. Il silenzio ha preso il sopravvento. Solo lo sferragliare della tranvia continua, irregolare. E il rumore incessante delle ambulanze, che corrono in emergenza.

 

Il passato è solo un ricordo pallido. Il presente, un’assenza. Il futuro, la proiezione di un’immaginazione.

Nulla è più certo, niente è più prevedibile.

 

La pandemia da virus Sars-Cov-2 ha preso il sopravvento a febbraio. Un anno bisestile il 2020. Un mese funesto, febbraio. Ne avevamo già tutti i sintomi quando, dal nostro Belpaese, seguivamo la situazione cinese. Sintomi di intolleranza e visione crudele. “Qui non arriverà!” era il coro di tanti. “È una semplice influenza”, dicevano gli esperti, osservando i dati dallo schermo. Poi, invece, anche l’Italia è stata colpita: contagiati, ricoverati in terapia intensiva, guariti e deceduti. I titoli dei giornali hanno cominciato a urlare. Gli scienziati hanno lanciato l’allarme. E dietro, come piccole oche che hanno perso l’orientamento, i politici hanno dato il loro contributo. Una sequenza di parole in lotta con i numeri e le necessità oggettive. Una realtà che ha corso su quelle cifre. Una realtà che oggi ferma il Paese. Per la sicurezza sanitaria, per la salute di tutti.

 

Mi levo la divisa, la butto in lavatrice. Bisogna lavare, bisogna sanificare, anche solo mentalmente. Occorre pulizia e ordine per avere il coraggio di affrontare un presente immobile.

 

Fuori è tutto fermo: aziende, uffici, bar, ristoranti. Le scuole sono state chiuse e non riapriranno. I turisti sono scomparsi, lasciandoci soli in questo Paese che si è sempre approfittato di loro.

Sono a casa i portieri, i facchini, il personale delle pulizie. Sono aperti i supermercati. La gente, sistemata in lunghe file, indossa la mascherina. La gente è disciplinata e in attesa. Continuano a girare autobus vuoti, a partire pochi treni senza prenotazioni. Le librerie hanno serrato gli usci e i libri sono rimasti in vetrina. Libri usciti più di un mese fa. E nessuno di questi titoli avrebbe scommesso la permanenza in bella vista per più di una settimana. Ora prendono la polvere.

 

Mi metto il pantalone della tuta. Una maglia, una felpa. Le pantofole. Dopo il lavoro non esco, come ha deciso il Decreto per tutti noi, che siamo cittadini di questa penisola. 

Nessun movimento, nessuna destinazione. Per la salute di tutti dobbiamo stare a casa. Può muoversi chi va a lavorare. Chi deve fare della spesa, chi deve andare in farmacia. Bisogna selezionare il tragitto più breve. Non soffermarsi sul marciapiede. Non guardare il fiume. Bisogna andare e poi tornare indietro, senza indugiare. Vietati gli spostamenti per vedere gli amici, per amoreggiare, per dare vita a un sorriso. Vietati i contatti sociali, vietate le visite, vietati gli assembramenti. Vietate le corse, le passeggiate, le direzioni di ogni svago. Sono permesse le uscite col cane, ma non oltre l’immediatezza della propria abitazione.  

Ci siamo isolati per combattere un virus che si muove veloce. Che passa da un uomo a un altro uomo, senza farsene accorgere. Un passaggio silenzioso, senza ferite. Quelle vengono dopo, ai polmoni. Si resta senza fiato. Si rimane immobili. Per sempre. 

 

Quando mi siedo sul divano ripenso alla giornata. Non è cambiata molto la mia vita: continuo ad andare al lavoro, seguo i turni, l’ordine di servizio. Poi ritorno a casa e da qui non mi sposto. Lo facevo anche prima,  vero, ma ora non ho il diritto di pensare di uscire. Ora ho il dovere di restare murato. 

 

“Siamo nati soli, viviamo soli, moriamo da soli. Solo attraverso l’amore e l’amicizia possiamo creare per un momento l’illusione di non essere soli.” diceva Orson Welles.

Oggi c’impongono la solitudine. Anche solo nello sfiorare l’illusione. Nella mancanza della presenza.

 

Quando sono in strada, l’impressione è quella vivere in uno stato di guerra. Mancano le macerie, non ci sono sacchi di sabbia, non vedo militari, ma l’aria è carica di tensione.

Il cielo terso di fine marzo non rischiara, ma appesantisce. Le piazze vuote sono luoghi abbandonati. Le statue non sono più ammirate. La bellezza è lasciata sola al suo ricordo e la sua maestà.

La prima settimana, mentre l’auto correva lungo un percorso indecifrabile, il vuoto mi affascinava. Era l’eccezionalità, l’assenza di corpi. Oggi, quel vuoto, mi attanaglia la gola e la prospettiva si riduce. Comincia a darmi fastidio il mozzicone di sigaretta lasciato a terra, la scatola ferma fuori da un portone. Le auto iniziano ad avere lo strato di polvere dell’abbandono. 

Non c’è più l’apprensione del rosso al semaforo. Non c’è più la prudenza della precedenza. Le regole, che prima esistevano per dare uno spazio a tutti, adesso sono inutili, ferme sulla carta. Oggi, quei tutti, non hanno presenza. E la solitudine ci fa girare le pagine senza un confronto. Senza conforto.

 

Mi muovo dentro una città mutata. Conto le persiane chiuse, gli appartamenti vuoti, le case piene. Nei palazzi, all’imbrunire, una moltitudine di ombre si stagliano sui vetri. Giornate che si ripetono uguali. Movimenti lenti e scomposti di una realtà che non cambia. Il sonno, la colazione, qualche faccenda domestica, i figli. Spazi che si riducono, che accolgono frustrazioni e preoccupazioni. Silenzi che si trasformano in urla per un nulla. 

Sono aumentate le violenze. Non ci sono dati accertati, esistono i silenzi. Anche questi donano una statistica. Chi prima poteva uscire e salvarsi ora è fermo nel suo destino. Controllati e controllori in pochi metri quadri di spazio vitale. Si salva chi ha vicini attenti. Si salva chi va a fare la spesa per non tornare più. Si salva chi muore.

Aumentano i suicidi. Corpi che occupano solo tagli bassi nei giornali.

La solitudine stringe i polsi, il collo. La solitudine assassina. Ma la pericolosità del contagio oggi ha preso il posto alla disperazione. Non c’è più la possibilità di un contatto emotivo. E’ abolita ogni possibilità, anche per chi di quel contatto vive.

 

Passando davanti ai supermercati il mio sguardo si ferma spesso sulle buste della spesa. Ci sono borse cariche, piene di insoddisfazione. Ci sono borse vuote, di chi tornerà più e più volte a prendere qualcosa, pur di uscire di casa. Nei corridoi gli scaffali sono sprovvisti. Vengono riempiti e poi svuotati da una bulimia di cibo. S’intravede, negli oggetti mancanti, la necessità di sicurezza. Sparisce il pane a lunga conservazione, il latte, la farina. Mancano i prodotti in scatola, i surgelati. Il banco frutta è appena toccato. Chi se ne serve è guardingo, attento a non toccare dove altri hanno preso. Guanti, mascherine. Si evita di sfiorare, di tastare la frutta. Il virus resiste sulle cose. Il virus vive negli oggetti e nella paura.

 

La televisione è accesa. Informa e delude. Il virus ha contagiato la notizia, i programmi, i talk show. Non c’è pubblico negli studi televisivi, gli ospiti sono in diretta Skype, in collegamento dalle proprie abitazioni. 

Gli scienziati parlano, i giornalisti fanno domande, i politici continuano a polemizzare e fare campagna elettorale. Cercano di anticipare il futuro, fallendo ogni volta. “L’avevamo detto, siamo stati i primi a proporlo, ma nessuno ci ha ascoltato” sarà la frase del dopo. Dicono tutto e il contrario di tutto, senza basi scientifiche, senza senso della realtà. 

I virologi esprimono perplessità, i giornalisti cercano di approfondire, le donne e gli uomini di spettacolo dicono banalità. “Restate a casa, non vi muovete, approfittate di questo tempo per ritrovare voi stessi” consigliano, con il sorriso sornione di chi è abituato ad essere ascoltato. Ma le parole cadono nel vuoto. Chi è davanti lo schermo non ha tempo di guardare nel proprio animo. Vuole capire il futuro, vuole la palla di vetro. 

Davanti lo schermo c’è una popolazione che sta perdendo il lavoro, che ha perso il proprio impiego. Davanti alle frasi sorridenti c’è un’Italia che sa già di non riuscire a pagare l’affitto, le bollette, la spesa. Non può uscire, non può andare a cercare una nuova vita. Perché lì fuori vita non c’è. In quelle parole non esiste speranza. C’è solo la tragedia di un virus subdolo che ha contaminato la loro esistenza imperfetta, senza tosse, senza neanche uno starnuto.

 

Iniziano i furti nei negozi lasciati chiusi, negli appartamenti non abitati, nelle auto parcheggiate. Cominceranno ad essere assaltati i supermercati, gli alimentari, i panifici. La mia auto di servizio comincerà a correre in strade deserte, cercando di arrivare prima che il disastro sia irreparabile. Incontrerò donne e uomini disperati, la cui sola la legge che avranno seguito è quella della sopravvivenza.

È vicino il tempo in cui la piccola speranza di ricominciare lascerà il posto all’urgenza di vivere. È prossima la rottura della calma, della pazienza. Si sta perdendo il senso del tempo. Si è già perso l’accanimento del piede nel percorso.

 C’è una rassegnazione che ben presto diventerà disperazione, depressione, frenesia. Rimarrà una cicatrice in tutti. Un respiro pesante. Uno sguardo verso un orizzonte sconosciuto.

 

Il virus e le difese attuate per sconfiggerlo hanno fermato la corsa. Abbiamo inchiodato un’auto che stava andando a cento all’ora. Ora stiamo sbandando. Riprendere la giusta direzione non sarà facile. Non servirà solo addrizzare lo sterzo, ma dovremo riconquistare la velocità di crociera. Ci sarà chi non vorrà più viaggiare velocemente. Ci sarà chi correrà, per recuperare il tempo perduto. Sarà un tempo difficile. Mutato dai nostri ricordi. 

 

Fuori è notte. Ferma, silenziosa. Solo il buio ci aiuta a sopportare questa prigionia.

Domani rimetterò la divisa. La mia vita continuerà come sempre. Andrò al lavoro, seguirò i turni, l’ordine di servizio. Poi ritornerò a casa e da qui non mi sposterò. Per il bene di tutti.

Se davvero tutti esistono.

 

Gabriele Ametrano

Direttore del progetto e della rivista La città dei lettori.

Lettura consigliata
L’arte di conoscere se stessi
Arthur Schopenhauer
Ad amici e seguaci Schopenhauer non aveva nascosto l’esistenza di un vademecum gelosamente custodito che era solito chiamare Eis heautón, A se stesso – come le celebri memorie di Marco Aurelio. Dopo la sua morte molti tentarono di ritrovare quelle preziose carte. L’esecutore testamentario, Wilhelm Gwinner, dichiarò di averle distrutte per volontà dello stesso Schopenhauer. In realtà, prima di ricorrere al fuoco, le aveva utilizzate per scrivere una biografia del filosofo nella quale gli specialisti non tardarono a riconoscere passi – letteralmente citati – tratti da quelle pagine inedite, tanto che fu possibile ricostruire per congettura il testo originale. Avviato nel 1821 e proseguito poi nei decenni successivi, questo «libro segreto» – qui proposto per la prima volta in traduzione italiana – consisteva probabilmente in una trentina di fogli fitti di annotazioni autobiografiche, ricordi, riflessioni, norme di comportamento, massime e citazioni che Schopenhauer aveva registrato come ciò che gli stava più a cuore, come una sorta di distillato della propria personale saggezza di vita: le regole di un’arte per conoscere se stessi e, nel contempo, per rendere meno difficile la convivenza con gli altri e l’orientamento nel mondo: «Volere il meno possibile e conoscere il più possibile è stata la massima che ha guidato la mia vita».