Ci sono delle storie che accomunano quasi tutte le donne che conosco, che siano coetanee, più grandi o più piccole di me: praticamente ognuna di loro può raccontare di avere subìto, in qualche momento della sua vita, una qualche forma di abuso fisico o psicologico legata al fatto di essere, per l’appunto, donna. Può trattarsi di una relazione tossica, o di depressione post partum non diagnosticata perché «Non hai motivo per essere triste, hai una bambina bellissima!», o ancora, di mobbing sul posto di lavoro, di commenti fastidiosi o di giudizi non richiesti riguardanti l’aspetto fisico, della pretesa da parte degli altri membri della famiglia di occuparsi dell’organizzazione delle loro vite e del carico mentale – mai riconosciuto – che questo comporta, ecc.
Appena una donna si apre, quasi inevitabilmente si unisce a lei una lunga scia di altre donne che replicano «Anche io!», e poi procedono a raccontare, a loro volta, storie di incomprensioni, fatiche, solitudini, rabbie, frustrazioni. Finché rimanevano narrazioni singole, ognuna delle protagoniste poteva pensare di essere incastrata in un destino ingiusto. Un destino del quale era, in un modo o nell’altro, responsabile. Perché quando ci si sente sole, isolate dal mondo, è facile convincersi che quello che ci succede sia causato dalle nostre scelte, dalla nostra volontà o mancanza di essa.
Quando queste storie vengono messe in comune, si scopre che le donne, nel corso degli anni, dei decenni, dei secoli, hanno avuto destini molto più sistemici di quanto si potesse di primo acchito pensare. Destini in larga parte prevedibili, dovuti a dinamiche di genere profondamente radicate nella cultura, che per lungo tempo ha considerato normale che, semplicemente, una donna avesse meno diritto alla felicità di un uomo. Penso alla storia di Oliva Denaro, così ben raccontata da Viola Ardone: una donna che, in un paesino della Sicilia, rifiuta il matrimonio riparatore con il suo stupratore che, agendo secondo una consuetudine dell’epoca, aveva ben pensato di prendersi con la forza quello che la donna non aveva voluto concedergli, ossia il suo corpo, il suo sesso. Mirabilmente descritta, nel libro, la reazione del paese in cui i due vivevano: è comunque colpa tua, dicevano le persone alla giovane donna. Sei tu che l’hai provocato, sei tu che hai accettato un’arancia dalle sue mani. Se poi lui ti ha preso con la forza è perché a quel punto tu gli spettavi: è stato suo preciso diritto averti. Cosa sarebbe successo se Viola avesse scelto di rimanere in silenzio, di chinare il capo di fronte alla consuetudine? Se avesse accettato di portare la colpa che la sua società le aveva assegnato, semplicemente in quanto donna?
Raccontare, dunque. Comparare le esperienze. Scoprire che la mia oppressione è la tua oppressione, e che le nostre oppressioni sono in relazione all’oppressione che ha subìto lei, e quell’altra donna, e quell’altra ancora. Rendersi conto, insomma, di essere parte di un tutto, tanto per richiamare John Donne; un tutto, però, che ha caratteristiche perverse, perché è un’oppressione ricorrente, sistematizzata, data per naturale e inevitabile; un’oppressione difficile da vedere e da riconoscere se ci si cresce dentro, se ci viene sempre detto che è normale che le cose vadano così: è normale che una ragazza che non si mette la gonna sia considerata un maschiaccio; è normale che una donna che non vuole figli sia considerata strana; è normale che una donna, sul posto di lavoro, debba continuamente dimostrare di valere tanto quanto un uomo, come se “uomo” fosse l’unità di misura del mondo: della bravura, della forma dei nostri corpi, delle stranezze femminili, viste in qualche modo come una deviazione rispetto alla norma maschile.
Sorella.
Questa è stata la parola che ho sentito riecheggiare nella mia testa leggendo La parola femminista. Una storia personale e politica, libro di Vanessa Roghi. Sullo sfondo degli eventi che hanno segnato il cammino dell’emancipazione femminile in Italia e nel mondo, Vanessa racconta la sua storia di donna figlia degli anni Settanta, delle sue sofferenze, delle sue prese di coscienza, delle vittorie, delle sconfitte. Il racconto è costruito attorno alla parola “femminista”. Cosa ha voluto dire essere femminista negli anni Settanta, Ottanta, Novanta, cosa vuol dire essere femminista oggi? Quanto è stata usata come insulto, questa parola, a indicare donne che non erano disposte a stare dentro ai ranghi, a vegetare nelle nicchie loro assegnate dalla società? Chi ha letto Vanessa Roghi per diventare la splendida donna femminista dolcissima e coltissima e rompicoglioni che è oggi? Carla Lonzi, Elena Gianini Belotti, bell hooks, Natalia Aspesi, Fulvia Serra, Dacia Maraini, Simone De Beauvoir, Susan Faludi, Lea Melandri, Lidia Ravera, Adriana Cavarero, Ida Dominijanni, Olympe De Gouges, Virginia Woolf e tante altre donne di tutti i tempi, ma anche tante donne di oggi, delle generazioni successive alla sua, alla nostra; tutte insieme, formano quella tenace, resistentissima rete di sorellanza che rende il femminismo quello che è nell’essenza: un movimento collettivo, un’onda di donne che, travalicando lo spazio e il tempo, si tengono per mano e si sostengono a vicenda. E sullo sfondo della grande storia femminile, la piccola – ma mica tanto – storia individuale di Vanessa: i suoi amori, le sue paure, le sue gravidanze, le figlie, il lavoro, le violenze, le ingiustizie, le prese di posizione, le proteste, la rabbia: la maturazione di una coscienza diversa dalla mia, ma simile alla mia.
Non conosco un’altra studiosa che riesca a far vibrare la storia così intensamente quanto Vanessa Roghi. Leggetela, se volete capire più cose di voi stesse, o di voi stessi. La parola femminista parla a tutte le persone; anche agli uomini.