La verità è che avevo paura. Ma quel pomeriggio non potevo dirti di no: la commedia del nuovo me stesso doveva abbagliare tutti e te per primo. Come potevo tirarmi indietro dopo che avevi gonfiato questo pomeriggio come il gran battesimo? Alle quattro e mezza eravamo già di fronte alle vetrine linde del posto prescelto. All’esterno, nonostante il traffico, arrivava smorzato il chiacchiericcio di anziane signore acchittate, accompagnate da mariti importanti e assonnati, che si affollavano alla cassa o che avevano preso già posto per la presentazione prevista per le cinque. Bruciavo di ansia e insieme della speranza vigliacca che qualcosa ci costringesse a rinunciare. Stavo male e lo dissimulavo con le peggiori battute che avessi mai fatto mentre tu risplendevi quieto nel tuo solito sarcasmo.
«Devi essere svelto e lento insieme» mi ricordasti, indovinandomi in ansia, «non starci troppo, non dare troppo nell’occhio e vedrai che andrà tutto bene».
«Svelto e lento, sì» ripetei, spacciandomi per convinto anche nel tono di voce.
«Appena hai fatto» continuasti a voce bassa con qualche pausa, il filtro stretto docile fra i denti mentre modellavi il tabacco nella cartina fra le dita inanellate, «appena hai fatto non ti lanciare fuori ma aspetta un po’. Dai che poi andiamo a festeggiareee». Queste ultime parole brillarono attorno al primo fumo di quell’ennesima sigaretta come la terra promessa che a breve avrei conquistato.
«Dai, forza, è il momento».
Cercai l’orologio scivolato sotto la manica, lo recuperai con gesti maldestri. Erano quasi le cinque. Ma sì, ma chi se ne frega. Non so cosa mi prese, non mi voltai nemmeno più a guardarti, entrai.
Il pensiero di deluderti, di tornare alla vergogna del vecchio me, schiacciò per un momento ogni altro malessere.
Dentro faceva caldissimo, in un bagno infernale di luci entrava ancora gente e sembrava che quel posto ne potesse ingoiare all’infinito. Per mia fortuna molti erano ancora in piedi, commessi e commesse erano subissati dalle richieste: gioivo di quel defilatissimo anonimato, che mi dava sicurezza.
Puntai la poesia, trattenni la foga del corpo che mi spingeva a chiudere tutto il più velocemente possibile.
Svelto e lento svelto e lento svelto e lento, mi ripetevo come una preghiera disperatamente sentita e che esige il miracolo.
Da giorni avevo in testa il percorso, la posizione dello scaffale, i modi fintamente disinvolti che avrei assunto, gli imprevisti più remoti.
Alle sedici e cinquantasei ero davanti all’obiettivo (sfregavo il cinturino dell’orologio come il talismano che mi avrebbe salvato). Strisciai fremendo l’indice lungo i dorsi lucidi, opachi, alti e bassi.
Non c’è?!
Sudai freddo. Estrassi diversi volumi per essere sicuro che non fosse caduto in fondo o che non fosse nascosto tra altri più grossi.
«Un attimo di attenzione per favore, l’autore sta arrivando e inizieremo a breve, vi invito a prendere posto, grazie» gracchiò in tutta la libreria la voce metallizzata del fortunato giornalista che avrebbe intervistato quel pomeriggio il grande A*** K*** sulla sua ultima uscita, già incensata dalla critica internazionale come l’ennesimo capolavoro.
Dove cazzo è???
Cedevo di nuovo ignobilmente all’ansia, che riprendeva vigore; lo spettro del fallimento balenava negli annunci ripetuti dal giornalista al microfono per domare la folla.
Accecato dalla precisione del mio piano, non avevo degnato di uno sguardo la sezione delle «Ri-proposte» proprio lì accanto, che ogni mese metteva fisicamente in risalto e ri-offriva
allo sguardo dei clienti un romanzo semidimenticato ma di qualità, un vecchio autore di nicchia o una raccolta di racconti di valore assassinata sull’altare del mercato dall’incomprensione del pubblico. Lì sghignazzava il mio obiettivo, certo di avermi fregato: Poesie dei primi realvisceralisti. Fu in un momento di lucidità che me ne accorsi.
Recuperata la sbandata, feci qualche passo, mi guardai intorno, lo rubai alla sua nuova e privilegiata collocazione e lo sfogliai con noncuranza, lo rimisi a posto, presi un altro libro e poi ritornai al mio obiettivo: il comportamento studiato di un cliente qualunque.
«Un applauso per A*** K***!» urlò il giornalista.
Feci scivolare il volumetto in una tasca del cappotto. Mi avevi assicurato che le barriere di controllo all’uscita non avrebbero segnalato la sottrazione quel pomeriggio, per non so quale motivo.
Aspettai qualche minuto fingendo altri interessi, come mi avevi consigliato, poi inspirai profondamente per il gran finale. Mentre il lungo applauso iniziale veniva decapitato malamente dall’impazienza del giornalista, io saltavo il confine del mondo corretto.
Aveva iniziato a piovere. Ti cercai con lo sguardo sotto il portico, fiero del mio battesimo.
Non c’eri.
Avrei dovuto cercarti di nuovo, lo sapevo. In uno dei nostri soliti posti.
In quegli anni eri il mio Amico, il mio Mito. L’unico me possibile e futuro aveva il tuo viso, le tue parole, il tuo modo di chiudere la sigaretta.