Me la ricordo la prof che in quarto ginnasio assegnò La coscienza di Zeno come lettura di Natale. Donna amorevole e criminale perché, cioè, dai, ma a una classe di ragazzini di 14 anni cosa gli assegni da leggere Italo Svevo? Ma cosa gliene può importare di affari commerciali, di psicanalisi, della condizione di inetto? Questo “inetto”, questo nome grave, adulto, questo insetto senza S. A 14 anni uno capisce la S di “sfigato”, quella sì. Ma per quanto la scuola ti possa far sentire “sfigato”, ti senti lo sfigato protagonista del tuo film e sai che tra 20 minuti di trama arriverà qualcuno a darti le chiavi della Delorean o a dirti che sei un mago, Harry. E tutto cambierà. Lo sai che cambierà, quindi “inetto” non lo capisci veramente.
Non possiedi proprio il vocabolario esperienziale per comprenderlo.
E infatti, sul momento, quel libro lo odiammo un po’ tutti.
Nelle ultime settimane ho deciso di riprenderlo. Lo rileggo per la seconda volta. E per la seconda volta mi urta i nervi.
Lui è rimasto il solito bugiardo, invidioso, incartato nel suo tempo e nelle sue ridicole consuetudini, lagnoso, affettivamente incapace.
Ma adesso lo capisco. Quasi mi ci riconosco. Perché sono passati 16 anni.
Oggi me le vedo proprio davanti, tutte le componenti dell’inetto 2.0 così come potrebbe apparire nel 2022. Un elenco fantozziano: under 30; vaga vergogna di sé e delle aspettative sociali che sta disattendendo, spesso per mancanza di mezzi; pregresso percorso universitario umanistico sconsigliato da tutti ma imboccato pensando “Sì ok sarà difficile ma non finirò come gli altri, per me sarà diverso”; successivo passaggio da un lavoro all’altro spesso meno qualificato rispetto al suo profilo, spesso pagato poco o non pagato per niente; stanco; col magone, ma senza sapere perché; consapevole che “Come stai?” è una domanda terribile perché regala un’ora di autocoscienza al gruppo di amici ma poi toglie quel poco di energia sociale rimasta; braccato a vista a Natale da almeno una zia che dice “Io alla tua età avevo già fatto il primo figlio”.
Il nuovo inetto è percepito. Competente, ma nelle cose sbagliate.
Nel mentre che rileggo Zeno, mia madre su Netflix guarda Strappare lungo i bordi. Per due giorni mi piange al telefono: “Sembra di sentire le cose che dici sempre tu”. È un piccolo riconoscimento, però un po’ mi scoccia che per convincerla di quello che sento (sentiamo) si doveva scomodare un armadillo.
Sia io che Zeno interrompiamo la psicanalisi. Un po’ per disaffezione, ma personalmente anche perché ho finito i soldi e devo scegliere tra sentirmi in colpa con l’analista o sentirmi in colpa con Enel. Scelgo di sentirmi comunque in colpa ma con le bollette pagate.
I giorni di questa mia seconda lettura continuano così: Zeno che invidia la disinvoltura di Guido Speier, io e Zerocalcare che paragoniamo la nostra vita a quella degli altri. E scopriamo dai social che sono tutti in qualche modo migliori di noi.
E io davanti ai social mi disarmo.
Chiedo scusa a mia madre per non aver imparato un mestiere concreto. Scusa, Mamma.
Chiedo scusa a mio padre per essere uscita dall’università ancora più insicura di prima, per essermi incartata nel “conosci te stesso”, per essere quella che a fine giornata non ha prodotto niente di tangibile. Scusa, Papà.
Chiedo scusa a zia per aver creduto alle promesse del benessere economico di una generazione che non è la mia, ma quella in cui per trovare lavoro bastavano la terza media e i punti del Conad. Scusa, Zia Conad.
Chiedo scusa per l’arroganza, la superbia, la hybris.
Chiedo scusa anche per aver imparato cos’è la hybris.
Sì, è vero, non mi andava di lavorare. Non mi andava di diventare chirurgo, ingegnere, economista, avvocato, architetto, bancario. Mi avete fatto tana.
Volevo imparare, con grande spocchia, a prendermi cura del patrimonio artistico e naturalistico, del patrimonio umano. Elaborare nuovi scenari di diritto e di integrazione. Insomma, volevo imparare come non si diventa fascisti.
Non mi sono preoccupata di diventare utile, ma solo di studiare l’interpretazione del mondo. Ho cullato la pretesa di diventare io la colonna d’Ercole dell’automatizzato, essere tra quelli che lo riportano (o lo conducono) al servizio dell’umano e non il contrario. Volevo essere la racconta-storie, di quelle nuove, e la ricorda-storie, di quelle vecchie. Volevo insegnare ai robot chi è Liliana Segre.
Ma ormai a chi importa? È arrivato l’ordigno. Quello della profezia, non dell’armadillo, ma di Zeno. È arrivata l’era dell’uomo più ammalato degli altri, quello che l’ordigno l’ha rubato e messo al centro della Terra. Forse si avvicina la catastrofe inaudita. Zeno dice che dopo torneremo alla salute. Io non sono mica tanto convinta.
Ma una cosa di sicuro rimarrà la stessa: Zia Conad il prossimo Natale (ancor più astiosa e forse radioattiva) che del mondo allo sbaraglio troverà il modo, anche quest’anno, di dare la colpa a me.