Putrescenti. Disarticolati. Hanno sempre fame. Invadono la società come un corpo unico e al contempo molteplice. Una masnada fuori controllo, un cancro inarrestabile (Onkos, diceva Platone riferendosi alla massa che si fa ancora più massa).
Gli zombi sono creature liminali, esseri condannati a restare in maniera perpetua sulla soglia della non-morte.
Sortilegio voodoo, mutazione genetica, virus; gli zombi nascono in vari modi e nella narrazione si fanno metafora degli oppressi: schiavi disumanizzati, ridotti ad automi schiacciati dalle logiche produttive. Poi si trasformano in blob che si muove senza scopo (e senza cervello) assaltando centri commerciali – a pensarci bene non esiste lo zombi, esistono gli zombi: tanti, pericolosi, affamati. Rivoltanti. Allegoria degli alienati: drogati, dipendenti, alienati, assoggettati alle proprie compulsioni – Neologismo dell’ultima ora: zoombie, chi trascorre molte ore sulla piattaforma Zoom.
Qualche tempo fa mi è stato chiesto di tenere un modulo dedicato alla letteratura a tema zombi. Ho immediatamente risposto di sì.
Un attimo dopo mi sono resa conto di aver sempre considerato gli zombi come i fratelli sfigati dei vampiri; lo sfondo perfetto per un panorama apocalittico, una piaga mortifera e deviante, splatter, nel migliore dei casi; niente di più che la metafora di qualcosa. Stop.
Eppure…
Così la domanda: perché mi piacciono così tanto gli zombi?
In un documento non classificato intitolato “CONOP 8888” si scopre che il Pentagono ha usato la minaccia di un attacco da parte dei morti viventi come modello per le proprie esercitazioni. E ancora: Greg Nicotero, il truccatore della serie The Walking Dead, ha fondato una scuola di tecnica cinematografica dove si impara a muoversi e comportarsi come uno zombie (il segreto è camminare come degli ubriachi).
In Inghilterra, invece, La Tiger Log Cobin vende online una casa prefabbricata anti-zombi. Altra chicca: alcuni matematici canadesi hanno creato dei modelli per esplorare gli effetti di un’apocalisse zombi e le sue conseguenze sul genere umano. (Allerta spoiler: moriamo tutti.)
Insomma, negli ultimi anni i non-morti si sono insinuati nel nostro immaginario con prepotenza. Se è senza dubbio il cinema ad avene decretato la popolarità, la letteratura ha comunque dato un contributo non da poco. I testi sono centinaia. Ne cito tre: World War Z di Max Brooks, Diario di un sopravvissuto agli zombie di J.L. Bourne e Warm Bodies, di Isaac Marion, che non scrive solo una storia nella quale l’umanità è devastata a causa di un’apocalisse zombi, ma ne sceglie uno, R, un ragazzo in piena crisi esistenziale, non-morto, affamato di cervelli e… innamorato! Da massa informe a individuo danneggiato. Gli zombi evolvono, le narrazioni che li riguardano si adattano a noi e ai cambiamenti di ciò che ci gira intorno. Ci somigliano tanto: intrappolati nella loro coazione a ripetere, comandati da una fame senza scopo che odora di istinto sterile. Li racconta anche Cristò nel suo La carne: zombi innocui che attendono in file ordinate la loro razione di carne in una società dove morire è diventato un privilegio di pochi. Una discarica di bocche spalancate sfamate con i loro stessi corpi macinati – mi ha ricordato quello che accade in certi programmi televisivi.
I non-morti sono creature perfette per raccontare le storture umane. Me lo ha insegnato la Oates nel suo Zombie, che dalla prima pagina mi ha scaraventato nella mente perversa di un serial killer usando parole così disturbanti da farmi sentire il bersaglio di un lanciatore di coltelli con il singhiozzo. L’eroe in questione è Quentin_P, e da quando ha scoperto l’esistenza della lobotomia ha un unico obiettivo: realizzare il suo zombi personale.
A un certo punto della lettura mi sono chiesta quale differenza ci fosse tra i walking dead e gli individui danneggiati. Entrambi sono guidati da una coazione a ripetere, entrambi intrappolati in un limite, persi all’interno di un processo di individuazione che non trova compimento. In un attimo gli zombi hanno cominciato a mostrarmi tutte le debolezze umane, le storture, gli scarti inevitabili che in un’ottica di produzione ci ritroviamo ad ammassare ai margini, sempre in aumento, sempre più rivoltanti. Come faremo a smaltire tutti questi “rifiuti”? Creature incapaci di autodeterminazione, l’antitesi esatta della concezione fenomenologica di mondo. Ma uguali, identici, spiccicati a me, a te. È quest’ambiguità che fa da fondamento alla letteratura perturbante: ciò che è estraneo e familiare allo stesso tempo. Incerto e non immediatamente comprensibile per definizione. Come lo capisco, dunque, che non sono come loro?
È il dettaglio che fa la differenza. Basta porre l’attenzione sulla vacuità dello sguardo, zoomare su una cicatrice putrescente, su un passo sbilenco, et voilà, siamo diversi, io non sono come te. E mi salvo. Anche se più mi guardo allo specchio più il colore del mio incarnato non mi convince affatto…